Beethoven, Mann, Pollini e la 111: un viaggio oltre se stessi
….e come il tema dell’Arietta, attraverso cento destini, cento mondi di contrasti ritmici, finisce col perdersi in altitudini vertiginose che si potrebbero chiamare trascendenti o astratte, così l’arte di Beethoven aveva superato se stessa… (T. Mann, Doktor Faustus, VIII, trad. it di Ervino Pocar)
Nel suo inquieto romanzo Doktor Faustus, abbacinata rivisitazione in chiave novecentesca del mito dell’artista che scende a patti con il demonio per assurgere a vette sempre più alte e pericolose, Thomas Mann scrive pagine indimenticabili, ma forse dimenticate, di analisi della ultima sonata per pianoforte di Beethoven, la n. 32, op. 111, in do minore.
Sotto le mentite spoglie di Wendell Kretzschmar, l’appassionato insegnante di musica afflitto da attacchi di balbuzie scoppiettante che minano di continuo i suoi voli interpretativi con crudeli ridimensionamenti comici, nel capitolo VIII del romanzo Mann si addentra nei meandri di questa estrema propaggine dell’arte di Ludwig van, che già nell’insolita struttura in due movimenti (in luogo dei canonici tre) pone dilemmi che sfiorano il metafisico (anche se leggenda narra che Beethoven stesso avesse liquidato la vicenda con una prosaica motivazione: non aveva avuto tempo di scrivere il terzo movimento. Ma poi non lo so quanto sia prosaica….).
Tralasciando, si fa per dire, il movimento iniziale – Maestoso - Allegro con brio ed appassionato – l’analisi si appunta
ben più decisamente sul secondo, quell’enigmatica Arietta con variazioni. Adagio molto semplice e cantabile che ci stupisce
già dall’indicazione di tempo, un 9/16 “no inusuale, de più” (come direbbero i grandi Lillo e Greg di Radio Coatta Classica).
Il fatto è che questa dimessa arietta, quasi annichilita nel suo tentennante procedere, come quei bambini a cui devi tirare le
parole di bocca con le tenaglie, non solo contiene in sé abissi di significato ma, come tutte le cose “semplici”, apre la strada
alle complessità più ardite, qui al fiorire di cinque variazioni in cui – complice la sordità ormai quasi totale? (è un vecchio
tema che riappare ogni volta che lo si vuole scacciare come banale) – il balzo in avanti verso “altitudini vertiginose” diventa
impressionante, superando la stessa epoca del compositore, forse la sua stessa educazione, forse la sua stessa consapevolezza.
E dove questo fenomeno appare, secondo me, con lancinante evidenza è nella terza variazione, incastonata tra l’ipnotica cantilena che la precede e le rarefazioni ormai ineffabili che la seguono.
Lo dico? Non lo dico? Lo dico (anche se magari non sono il solo): in questa variazione Beethoven arriva al “jazz”. Non solo perché il tempo indicato è ormai oltre pure Radio Coatta Classica (12/32!! Praticamente “senza tempo”… tanto è vero che molti lo normalizzano in un 3/8 meno ansiogeno) ma soprattutto perché la figurazione ritmica che la pervade, il gioco delle risposte, gli accenti instabili la legano solo con un tenuissimo filo alla coeva tradizione di musica notata e normata: un passetto più avanti e ci sarà lo swing, ancora un poco poco e ci sarà l’improvvisazione. Questo ha sentito il Grande Sordo nel suo silenzio.
Naturalmente per fare emergere questi aspetti ci vuole un interprete che li veda, che ci creda. In questo senso la folgorazione sulla via di Damasco io la ebbi da Maurizio Pollini, in un vecchio LP del 1977 (ascoltatela qui l’arietta https://www.youtube.com/watch?v=r210E7bHB08, e in particolare la III variazione da ca. 6.25 a ca. 8.30).
Da lui capii la grandezza di quel tema “destinato a subire avventure e peripezie per le quali nella sua idilliaca innocenza proprio non sembra nato”, la forza profonda della sua debolezza: quella della ginestra.
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