Boom di presenze con quasi 100 mila persone vinose e tanti strappi - non ‘stappi’ - alle regole vinarie in uso. Vinitaly ha sdoganato concezioni e dinamiche enologiche per certi versi incredibili. Tra predisposizioni ad accettare i cosiddetti ‘no alcol’, la frenata dei rossi portentosi, l’ascesa delle bollicine, l’inarrestabile proposta della variegata gamma degli ‘orange’ o le variazioni dei naturali, artigianali, ribelli, straniati, selvaggi, anarcoidi, rivoltosi e via declinando. Chiamando in causa il rapporto tra vino, gusto, mercati, sentimenti e giusti pensieri. Fazioni enoiche scatenate dagli alcol free, tra prese di posizione ministeriali - Lollobrigida impugna delibere, brandisce calici come stilemi littori - e l’imprenditoria vitivinicola che scommette sulla nuova quanto pressante richiesta di vini meno muscolosa per non dire analcolica.
Non è vino - dicono i più rigorosi - non chiamiamolo così, si rischia di snaturare il concetto stesso di vino. Ma non è giusto neppure lasciare alle multinazionali del ‘beverage’ questo (vino?) dealcolato. Con i Paesi vicini all’Italia già operativi nella produzione, rivolta ad una schiera globale di consumatori. Per nulla intimoriti che il nettare caro a Bacco venga trasformato in banale, seppur moderna, bevanda. Contrapposizioni evidenti che mettono in discussione pure l’evoluzione del comparto vitivinicolo più tradizionale. I colossi puntano a mantenere fatturati e commercio globale, mentre una miriade di cantine si cimentano in strategiche evoluzioni. Tantissime conservano il loro rigore territoriale, tutelando l'originalità di collaudati parametri gusto/olfattivi, per vini della condivisione, canoni tradizionali di degustazione, contemporaneamente impostati per essere ‘pop&top’. Poi ci sono gli altri vini, appunto gli opposti.
In primis quelli della Amber Revolution, gli orange wine, vinificati nella maniera più ancestrale e che rappresentano una sorta di ‘ritorno al futuro’. Ottenuti in anfore d’argilla, contenitore che ha del magico, legato a vinificazioni georgiane risalenti ad oltre 8 mila anni. L’argilla simbolo materico, il rifugio nella Madre Terra, con l’anfora assurta a metafora della vita, in quanto forgiata dalla mano dell’uomo mescolando terra, acqua e fuoco. Ecco allora una sequenza di vini in continua evoluzione. Non solo perché volutamente vinificati senza troppo badare al controllo delle fermentazioni dei mosti, uso di lieviti che garantiscono precisa sensorialità finale. Tutto è volutamente empirico, per recuperare concetti che esulano dalle collaudate tecniche enologiche. Questi vini vogliono essere caparbiamente figli specifici della terra dove maturano altrettanto idonee tipologie d’uva e altrettante tecniche enologiche rispettose delle modalità originarie di spontanea vinificazione. Senza se, con poco ma.
Vini che il consumatore - specialmente quelli della Generazione Z - percepisce in modo totalmente diverso dai canoni in voga tra i degustatori vecchio stampo. Si beve cercando stimoli sensoriali sedimentati nella nostra memoria, recuperati per dare al vino un valore immateriale, rimarcando pure l’estrosità del vignaiolo, la sua attendibilità enoica. Tutto questo in un distinguo rispettoso di reciproche convinzioni. Vino convenzionale o naturale? Sicuramente il vino è e rimane un prodotto della cultura dell’uomo e non un risultato spontaneo della natura. Lo hanno ribadito autorevoli esponenti di schieramenti per anni orgogliosamente opposti. La guerra tra fazioni non giova a nessuno, danneggia solo il vino nel suo fascinoso insieme. Tema scottante, rilanciato - in un serrato confronto organizzato dal Gambero Rosso - da Paolo Vodopivec, presidente del Consorzio Vini Veri, e Lamberto Frescobaldi, presidente di Unione Italiana Vini. Artigianalità e storicità enologica, due mondi apparentemente divergenti. In realtà entrambi orgogliosi di difendere e tutelare il bene prezioso che ci dona l’uva.
"Vogliamo assaggiatori curiosi, attenti, ben venga chi porta altri temi. D’altronde il vino perfetto non esiste e se finiamo per bere sempre le stesse cose poi finiamo solo per assaggiare la noia", ribadisce Lamberto Frescobaldi, che poco dopo conferma quanto il mondo del naturale abbia contagiato in maniera positiva il sistema. Paolo Vodopopivec ribatte: "Basta con il vino naturale come difetto, come associazione abbiamo l’obbligo di fare chiarezza, e anche di definire paletti più stretti sul termine naturale. Ci stiamo lavorando, confrontandoci anche con le istituzioni", mentre si degustano in contemporanea la Vitovska 2020 di Vodopivec e il Brunello Ripe al Convento Riserva 2018 di Castelgiocondo. Due bevute analogiche - così le definisce Lorenzo Ruggeri, moderatore dell’incontro - ben articolate, complesse, pensate per il lungo corso. Due vini che in qualche modo - l’assaggio comparato l’ha confermato - riescono a mettere d’accordo sia quanti sostengono che ‘il vino naturale non esiste!’ e i tanti che bevono in maniera diversa, per certi versi alternativa, strana, ma in continua, lenta evoluzione. Proprio come il carattere intrinseco dei vini di stampo ancestrale. Nel bicchiere un ritorno al futuro?
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