DAGLI AZTECHI
FINO A NOI
BENEDETTO
CIOCCOLATO

di MANUELA CASSARÀ

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Amaro o Dolce?

Io, essendo Bilancia, non mi sbilancio. Ma sostengo che, facendo i debiti distinguo perché non sono un’integralista come qualcuno che conosco, il cioccolato deve essere un piacere, se no perché ingurgitare inutili calorie?


(Benefici del cioccolato)


Mi reputo, perciò, aperta alle proporzioni, al mix equilibrato con latte e zucchero; e se amaro dev’essere, non andrei sopra il 75% di puro cacao. Dopo, a mio avviso, incomincia a diventare punitivo. Lo stesso non dicasi per il beneamato (detto anche ufficialmente marito) che, di fronte all’età che avanza, gli è presa una botta salutista, perciò prima o poi si farà arrivare addirittura il baccello, per sgranocchiare le fave 'nature' e assicurarsi che gli diano quelle sostanze che lo renderanno immortale.


(Diversi tipi di cacao)


Lo sapevate che quello che ho definito baccello, il frutto dell’albero del cacao, per gli addetti si chiama cabossa? Io no. Io l’ho imparato andando al 'Museo del Cioccolato e del Gianduia', qui a Torino, museo che non poteva essere altrove essendo questa meravigliosa città la patria onoraria e putativa del suddetto.


(Cacao, la raccolta delle cabosse)


Due cose che vanno dette, se no sembra che non ho studiato, così mi tolgo il pensiero, tanto c’è tutto scritto sulla cartella stampa: il Museo nasce a giugno di quest’anno per volontà di Francesco Ciocatto, proprietario della storica e adiacente Pasticceria Pfatisch, alle cui brioche e pasticceria salata vorrei fare una standing ovation, e di Eddy Van Belle, imprenditore e collezionista belga che, con i suoi Choco Story, si è dato da fare anche in Belgio, Francia, Repubblica Ceca, Libano e Messico. Non hanno badato a spese, lo si capisce, ma credo che non tarderanno a recuperarne i profitti e che il luogo diventerà una tappa turistica, come del resto avevo potuto constatare quel giorno di fine settembre, con gruppi aggregati ad ascoltare rapiti, poi ritrovati a sorseggiare un bel cioccolato con panna, seduti sotto i portici di via Sacchi.


(Cioccolatiere in rame)


Cominciamo. Entrate e vi danno un piccolo palmare che vi farà da guida parlata (cinque lingue, italiano, inglese, spagnolo, francese e tedesco); basterà appoggiarlo lato wi-fi su certi numerini che troverete piazzati lungo il percorso in modo che non mi perito di definire creativo, e la storia vi verrà spiegata in tutta la sua dettagliata complessità. Dislocati in modo creativo, vi dicevo. Sì, perché non è così semplice trovarli. Alcuni si sono divertiti a nasconderli, certi te li devi andare a cercare dove meno te li aspetti, il che aggiunge un aspetto da caccia al tesoro che non mi è dispiaciuto. Sempre che non abbiate fretta.



Detto questo è un museo interattivo, adatto a grandi e piccini, abbastanza serioso, ben fatto, anche fascinoso perché la storia del cioccolato ha radici complesse e lontane.

Pure in questo caso c’entra un serpente.

Vi ricorda qualcosa? Questo, almeno, era meno infingardo del nostro di biblica fama. Come ci spiega un simpatico video stile cartoon, il serpentone in questione, il rinomato Quetzalcoatl, tra le varie mansioni oltre a quella di creatore del mondo ha anche fare il giardiniere nel Paradiso Azteco; si dice quindi che si sia fatto portatore di un certo germoglio e che poi, per farlo crescere, lo abbia consegnato al dio dell’acqua e della pioggia, certo Chalchiuhtlatonal, che a sua volta, dopo averlo per bene irrorato, lo passa di mano per consegnarlo in quelle della dea dell’amore e della fecondità - che potrebbe, uso il condizionale perché a quel punto mi ero già persa, chiamarsi Xōchiquetzal o Ixchel per i Maya - la quale con le sue amorevoli cure ne fa crescere i fiori che generano le cabosse a loro volta con dentro le fave.


(In attesa del Serpente piumato)


Aztechi e Maya con i semi finora sconosciuti un poco ci giocano, e mentre cercano di capire cosa fare con quelle fave, prima le fanno fermentare. Il perché onestamente non ricordo ed era stato inutile cercare di riavviare la postazione per riprendere le fila del discorso. Il bello di quei numerini è che, una volta ascoltati, non ripetono, come Paganini. Quindi meglio non distrarsi.


(Frullini indigeni)


Dopo la fermentazione le fanno seccare, per poi schiacciarle su una lastra di pietra chiamata metate con un rullo chiamato mano, che poi è , ci tengono a sottolineare, come fanno tuttora il cioccolato a Modica; se lo avete assaggiato fateci caso, risulta un pochino sabbioso, ma pare sia il suo bello, perché fa autentico.

Detta poltiglia, dapprima così nuda e cruda, poi con l’aggiunta di pepe e peperoncino, veniva mischiata con acqua e frullata con l’apposito device – un peraltro pregevolissimo oggetto di legno e d’intricata fattura - fino a farla diventare una bevanda schiumosa ed energetica che pare desse la forza di un giaguaro a chi la beveva. Un certo imperatore azteco, inutile dirvi il nome, pare ne bevesse cinquanta tazze e a quel punto, secondo me, doveva ruggire.


(Metate di pietra)


Agli Aztechi l’intruglio piaceva caldo, ai Maya freddo. De gustibus. La bevanda era popolare già 1000 anni prima di Cristo.

Ora, in tutta la storia, a un certo punto c’entra anche il nostro Cristoforo Colombo, che come sappiamo non ne imbroccava una, nemmeno quando aveva scoperto l’America pensando che fossero le Indie. Gli amichevoli indigeni gli offrono la suddetta bevanda e lui che fa? Non dico che la sputa (in principio era abbastanza amara, bisogna dargliene atto) ma la ignora.

Poi arriva quel furbacchione infingardo di Hernán Cortés il Conquistador, che fa fuori Montezuma e gli Aztechi, ne conquista l’impero, lo offre in dono all’imperatore Carlo V e tanto per non sbagliare, ci aggiunge il cacao, che imbarca su uno dei suoi galeoni. Nel frattempo le monache di Oxaca avevano reso la poltiglia sicuramente più piacevole con l’aggiunta di zucchero e spezie, per cui quando, così trasformato, il cioccolato arriva alla corte dell’Imperatrice Isabella, nipote di quell’Isabella di Castiglia che aveva finanziato Colombo, è un successone.


(L'asciugatura delle fave)


Torniamo al percorso del museo, che si snoda attraverso riproduzioni della giungla amazzonica e rappresentazioni delle piantagioni con immagini e filmati retroilluminati, postazioni interattive e display che mostrano le diverse qualità di fave e cabosse, i luoghi di provenienza e gli spostamenti produttivi dall’America Centrale, con l’Ecuador confermato primo produttore, per arrivare in Africa, con Ghana e Costa D’avorio a contendere il primato.

Aggiungo una piccola considerazione di tipo socio-politico. A questo punto si è venuto a creare un surplus produttivo, una maxi offerta e una richiesta controllata da grandi multinazionali, il che significa solo una cosa: prezzi al ribasso. Quindi ai poveri cristi che si sbattono a coltivare il cacao arriva ben poco. Arriva sempre meno. Che fare? Per bilanciare, la scelta strategica è quella di giocare al rialzo, puntando sulla qualità più che sulla quantità, perciò sul cacao pregiato, selezionato; sul cacao oso dire firmato, per soddisfare i palati più fini e ricercati facendolo pagare a caro prezzo.


(40 cabosse, 800 semi, 600 gr di cioccolato)


Per capire meglio sono necessari due conti: per fare un chilo di cioccolato ci vogliono 40 cabosse, ovvero la produzione di due alberi, pari a 800 fave essiccate che polverizzate danno circa 600 gr di cacao, a cui - iperglicemici udite, udite - vengono aggiunti gli altri 400 gr tra latte e zucchero. Incomincio a pensare che il beneamato salutista non abbia tutti i torti a preferire la varietà amara. Incomincio a capire perché quelle tavolette ci costano un sacco di soldi.

Bene. Anzi no.

Passiamo ancora oltre, e vediamo un pizzico di storia più recente.

Lo sapevate che l’Italia è il settimo importatore di fave di cacao? Ecco. Torino secondo me è in pole position. Anche storicamente parlando.


(La linea del tempo del cacao a Torino)


A Torino ci era arrivato grazie ad una certa reale Madamin, Giovanna Battista di Savoia Nemours, che rilasciò la prima licenza a Giovanni Antonio Ari per commercializzare la bevanda al cioccolato. Ma sapete come sono i nobili, litigiosi ed egocentrici, per cui anche la Corte dei Medici disputa il primato della diffusione a riguardo. Rimangono due ricette, la Bavareisa sabauda, antesignana di quello che è diventato il Bicherìn, e quella medicea, più esagerata ed erotica, con aggiunta di ambra, vaniglia e l’aroma del gelsomino.


(La ricetta della bavareisa)


Torino sinonimo di Gianduiotto. E volete sapere di chi è la colpa o meglio il merito involontario di cotanta dolcezza? Pare di Napoleone I, che per contrastare gli inglesi aveva posto un embargo sulle importazioni delle loro merci, incluso il cacao. Da cui la necessità di trovare qualcosa per pareggiare il deficit: e cosa meglio di una bella Trilobata Tonda e Gentile detta anche Nocciola, che nelle Langhe piemontesi cresce felice per via del clima?


(La ricetta medicea)


Dobbiamo al Signor Paul Caffarel, un austero gentiluomo baffuto che si sarebbe avvalso di un meno famoso Michele Procet per realizzare un impasto solido (ricordiamo che fino a quel momento il cioccolato veniva servito solo in forma liquida) ovvero quello per il suddetto Gianduiotto, rimasto identico, nella forma, nel packaging e nella sostanza, attraverso i secoli. Il primo cioccolatino “sponsorizzato” della storia, garantito da un influencer locale, un certo Gianduia, maschera buffa nata sulle colline astigiane, protagonista del Carnevale Torinese, per gentile concessione della Famija Turineisa, a cui dobbiamo i natali dell’evento.


(La maschera di Gianduia)


Direi che abbiamo quasi finito. Il museo, come tutti i musei che veramente si rispettino, ci fa conoscere una pregevole collezione di tazzine d’epoca in finissima porcellana decorata; divertente il modello carrozza provvista di un recinto sul piattino con funzione anti traballo e soprattutto la versione virile, con mini piattaforma in ceramica sulla quale poggiare gli impomatati baffoni per evitare di imbrattarseli senza rinunciare alla deliziosa bevanda. Nella vetrinetta speculare, cioccolatiere di varie fogge e materiali, da non confondere con le simili caffettiere per via di due accorgimenti, il foro superiore e il manico laterale e centrale. Da perderci ore, incluso quelle per osservare e apprezzare anche le storiche scatole decorate. Momento di raccoglimento davanti alle meravigliose uova pasquali di cioccolato in stile Fabergè realizzate con cura certosina da una vera artista, Stefanella Bergiotti.


(Le preziose uova di Pasqua in stile Fabergè)


Il tour si conclude con un giro tra i macchinari, volendo ancora funzionanti, con la possibilità di soffermarsi per riprendere energie davanti a tre dispenser di pastiglie di cioccolato: fondente, al latte e bianco, necessarie a quel punto per fare mente locale ed essere certi di aver capito tutte le differenze. Ci vuole un certo educato autocontrollo per non farne man bassa. Avendo tempo e programmando per tempo si può assistere alla preparazione del cioccolato da parte dei maestri cioccolatai della pasticceria Pfatish dove si passa per uscire, e dove è possibile farsi tentare dalle bontà in mostra.


(I macchinari)


Concludo con un consiglio ai salutisti; nella stanzetta preposta, potrete conoscere tutti i molteplici e benefici effetti del cioccolato. Lo dico soprattutto al beneamato.




Choco Story Torino - Museo del Cioccolato e del Gianduja
Via Paolo Sacchi 38, Torino
Tel.+ 39 011 19820447

info@choco-story-torino.it
www.choco-story-torino.it





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