Il profumo del brodo si sentiva già sulle scale. Entravi dal portone, risalivi la prima rampa di scalini
e il profumo ti accoglieva avvolgente e ti accompagnava sino a destinazione. Peccato che il tuo appartamento
però non coincidesse con quello da cui proveniva quell’effluvio sublime. Il profumo del brodo non si può fermare,
come dice il poeta, penetra in ogni fessura e sembra lasciare dappertutto, sulle scale, sui ballatoi,
sulle ringhiere una patina unta di bontà.
Certo, il brodo. Non bisogna lesinare sui tagli delle carni. In rappresentanza del manzo, magnifico il cappello
del prete che possiede di suo una venatura centrale che è uno spettacolo di sobria opulenza. Poi non guasta
un pezzo di reale di vitello, abitato da abbondanti frammenti di grasso di color giallo intenso.
Occorre anche aggiungere un mezzo cappone tutt’intero, accuratamente spiumato e sfrigolato sulla fiamma onde
eliminare residui di piumaggi vari. In mancanza del cappone va bene anche una mezza gallina che,
secondo il proverbio, fa buon brodo. Ma meglio il cappone che è maestro nel fare buono il brodo.
Nella capace pentola versare acqua fredda quanto basta e una manciatina di sale grosso, a cui far seguire
le carni e abbondante verdura sotto forma di carota, sedano e cipolla nella quale occorre usare l’accortezza
di infiggere un chiodo di garofano. Qualche grano di buon pepe non guasta. Lasciare poi sobbollire il tutto
per qualche ora, sino a cottura perfetta delle carni che hanno rilasciato nel brodo tutti i loro benefici effluvi.
Ma, un passo indietro. Se sulle scale si avvertiva l’aroma del brodo voleva dire che la signora Giuditta aveva in mente
di fare il risotto e scatenare così le invidie di chi non era capace di cucinarlo o peggio di chi non se lo poteva permettere.
Il metodico ragionier Gilberto Teruzzi, quello del secondo piano affaccio ringhiera, che era uno scapolo impenitente,
mica si poteva mettere a preparare il risotto per lui solo, cosa ne avrebbe fatto di tutta quella carne lui che era quasi
vegetariano? E mica valeva la pena di mettere in piedi tutto questo ambaradan per un etto di riso. E allora, quando gli veniva
proprio voglia, andava giù in trattoria dove il Conca il risotto alla milanese lo sapeva fare con discreta attendibilità.
La Giuditta invece andava sul velluto. Al suo desco abituale sedevano il marito che indossava con noncuranza una bella pancetta
d’ordinanza, nonché due figlioli in età adolescenziale che erano in grado di mangiare, e di digerire, anche una ruota del camion,
bulloni compresi. Per la nostra Giuditta preparare il brodo era la premessa sine qua non alla quale doveva seguire necessariamente
la fattura del risotto giallo alla milanese in una versione invero semplificata perché non prevedeva l’utilizzo del midollo
che era, come è noto ai dietologi, un’autentica aggravante per il colesterolo.
Sulla scelta del riso non c’erano molti dubbi, in gara erano ammessi solo il Carnaroli e il Vialone nano che garantivano
ottima tenuta in rapporto allo shock di temperatura procurato dal brodo bollente. Per quattro commensali i grammi erano 400,
ma la Giuditta era solita buttarne in pentola almeno 500, perché in famiglia le forchette erano più che buone.
Affettata finemente la cipolla, veniva successivamente affogata in abbondante burro dove teneramente appassiva senza giammai
rosolare. Entrava poi in scena il riso che veniva adagiato nel dolce soffritto e lasciato tostare per tre/quattro minuti.
Ma ora riavvolgiamo il film perché ci siamo dimenticati di enunciare che per realizzare un buon risotto non è possibile
utilizzare una padella banale, bensì è d’obbligo, diceva la Giuditta che l’aveva ereditata dalla mamma, adoperare una capiente
padella in rame che, in quanto a conduzione, non temeva confronti.
Ora che il riso giace nella nobile padella di rame e la tostatura è completata occorre bagnarlo con un bel bicchiere di vino bianco,
che so un Lugana, un Soave o un Cortese che giù in trattoria dal Conca ne trovi di buona qualità. Sfumato il vino ecco che ha
inizio il grande rito del risotto. La Giuditta ha giudiziosamente provveduto a filtrare il brodo da ogni impurità e inizia a
versarlo sul riso con regolarità cronometrica: nel momento in cui il riso sembra asciugarsi, giù un bel mestolo di brodo.
Per chi non è mancino, con la man dritta si inizia allora a mescolare dolcemente il contenuto della pentola, usando rigorosamente
un cucchiaio di legno che deve accompagnare il riso sino a compimento dell’opera.
A metà cottura, intorno ai dieci minuti di orologio, si aggiunge una bustina di zafferano precedentemente stemperato
in poco brodo. E poi avanti così, mestolo dopo mestolo sino a cottura, che i chicchi del riso devono risultare sgranati, omogenei
e di un vivace color giallo. Si toglie poi il riso dal fuoco e si completa la pietanza aggiungendo ancora una noce abbondante
di burro e un paio di manciate di parmigiano reggiano grattugiato.
Dopo un riposino di un paio di minuti, un ultimo tocco di cucchiaio di legno e il risotto giallo alla milanese è pronto
per essere accomodato nei piatti. E buon appetito.
All’ora di pranzo, in quella domenica di aprile, che non è sempre detto che dei mesi sia il più crudele, il ragionier Teruzzi
sentì suonare il campanello del suo appartamento, giusto quando stava per mettersi a tavola davanti a un piatto di pastina fatta
con il brodo di dado a cui far seguire una confezione mignon di crescenza magra.
Quando andò ad aprire, già maledicendo quello scostumato che osava interrompere il suo pasto domenicale, scoprì sullo zerbino
un piatto fumante di risotto giallo a cui mano caritatevole aveva anche aggiunto in surplus una spolverata di grana.
Anche questi erano i miracoli della ringhiera.
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