Prima di debuttare come Faust al Teatro Studio di Milano – era il marzo del 1989, il Muro di Berlino stava ancora su – Giorgio Strehler lo disse chiaro: "Faranno l’Europa economica senza fare l’Europa degli uomini. Sarà la sconfitta di Goethe". Gli era diventata quasi una ossessione. A quel tempo, e ancora per qualche anno, poi, ho avuto il privilegio di scrivere i suoi articoli a tema politico. Non che fossi un ghost writer propriamente detto: lui definiva il tema e io lo mettevo in forma giornalistica, tutto qui. Ma quando si trattava di argomentare le questioni europee, mi diceva: "Fa’ tu. Tanto lo sai!". Lo sapevo perché me lo aveva insegnato per bene.
Goethe è stato uno strano illuminista: da giovane, inizio anni Settanta del Settecento, quando cominciò a scrivere Faust – il testo che lo ha accompagnato per sessant’anni, fino alla morte – il suo eroe era un egoista, fanatico del razionalismo e, in quanto tale, della scienza. Nell’ultima stesura, 1832, Faust è un figliol prodigo: Dio perdona il suo atto scellerato, il patto col diavolo, riconoscendo nella smania di quest’uomo ostinato la volontà di condividere con l’umanità i propri successi cognitivi. Faust era diventato l’uomo europeo mosso da una utopia collettivista, colui che vede in anticipo la nascita dell’individuo-massa, ossia il vulnus sociologico che avrebbe sconvolto l’Occidente a partire dalla fine dell’Ottocento.
Ma s’era solo nel 1832: settant’anni prima della battaglia contro gli individui-massa di Picasso e delle avanguardie storiche; più di un secolo prima dell’utopia di Spinelli; un secolo e mezzo prima dei trattati che hanno condotto all’Unione Europea. In mezzo, la visione europea di Goethe non ha fatto troppi proseliti. Anche Garibaldi, uno dei pochi che nel Secolo lungo abbia lanciato un progetto politico europeo (propriamente, il Generale dopo le guerre d’Indipendenza vagheggiò la nascita di una Lega europea, da affiancare alla Lega italiana cui aveva destinato il compito di difendere il suo disegno unitario), aveva una visione militarista, non culturale. Nel senso che per lui l’Europa avrebbe dovuto essere unita onde evitare nuove guerre fratricide: e pensare che nel 1863 fu un fratello italiano a sparargli e ad azzopparlo! Come che sia, l’azzardo di Goethe è rimasto lettera morta per un tempo interminabile.
Quando decise di mettere in scena Faust (lo spettacolo del 1989 si chiamava Frammenti parte prima: lui era in scena nel ruolo del titolo e non fu una scelta azzeccata), Giorgio Strehler da tempo insisteva sul bisogno di un disegno culturale europeo comune che oltrepassasse i confini nazionali. Nel 1984 aveva accettato la direzione del Théâtre de l’Europe dalle mani dell’allora ministro della cultura francese Jack Lang proprio con questo fine. Per rompere le barriere nazionali: l’identità europea è unica, predicava. Si sentiva cittadino d’Europa. Finché non riconosceremo le nostre radici comuni, non ci sarà ulteriore progresso – aggiungeva. Nel senso che dalla crisi dell’impegno, dal “riflusso” degli anni Ottanta, secondo lui si doveva uscire con uno scatto in avanti, con un rilancio azzardato: abbattere i confini delle identità culturali. Per questo aprì la stagione del Théâtre de l’Europe a Parigi con un classico della drammaturgia francese (L’illusion comique di Pierre Corneille) e di fatto chiuse la sua parabola creativa con il caposaldo dell’identità tedesca, Faust. L’uno e l’altro, per lui, erano sfaccettature dello stesso ritratto: l’uomo europeo, appunto.
Che l’Unione europea sarebbe fallita se si fosse limitata a gestire processi economici era opinione corrente, fra gli intellettuali di fine Novecento: non vennero ascoltati. E, del resto, la centralità della cultura e del pensiero critico era già nella sua parabola discendente, alla fine degli anni Novanta: la caduta del Muro, la vittoria del papa polacco e la sconfitta del riformismo impossibile di Gorbaciov hanno fatto il resto. Strehler non fece in tempo a vivere la partita della moneta unica e l’estenuante, quasi umiliante trattativa sui cambi (morì alla fine del 1997), ma si disse subito contrario alla frenetica accelerazione dell’economia europea: siamo un universo culturale caratteristico e multiforme, non un semplice mercato, diceva.
Ma fece in tempo a veder applicato il trattato di Schengen (1995) e gli sembrò un primo passo importante nella direzione che lui auspicava. Forse, alla fine, anche della moneta unica avrebbe apprezzato una dote non indifferente: la facilità di girare per l’Europa con gli stessi soldi in tasca. Quando per la prima volta andai in Francia senza passare dal cambiamonete (nella primavera del 2001) ricordo che ne trassi un effetto notevolissimo: mi parve il vero modo di abbattere le frontiere. Anche se i prezzi non erano – e ancora oggi non sono – equiparabili da un paese all’altro (e questo fa una bella differenza, sia dal punto di vista sociale sia da quello culturale).
Non ho competenze per valutare l’eventuale “fallimento” dell’Europa economica. Posso dire – con Strehler – che la moneta non basta e che forse proprio la centralità del mercato ha reso inefficace la fusione di economie forti, come quelle dell’Europa dei fondatori e quelle deboli, come quelle dei Paesi dell’Est. Ma la questione, a vent’anni dal conio dell’Euro, è un’altra: la vera rivoluzione alla quale abbiamo assistito non è nella cessione di sovranità monetaria ma nella libera circolazione nei paesi europei. Schengen, insomma, ci ha cambiato più dell’Euro. Perché scendere a Orly come se si sbarcasse a Punta Raisi è simbolicamente e concretamente un atto molto più forte che spendere un Euro per comprare un caffè a Roma e due per comprarlo (per altro pessimo) a Parigi.
Schengen ci ha cambiato come la Rete, né più né meno: ha aperto una possibilità di condivisione che trent’anni fa ci sembrava addirittura impensabile. Abbiamo cominciato ad essere cittadini europei senza neanche accorgercene e oggi non potremmo davvero più fare a meno di questo privilegio: in fin dei conti, neanche le destre più reazionarie d’Europa pongono tra i loro obiettivi la sospensione di Schengen con l’intento di bloccare l’immigrazione. Il razzismo chiede muri alle frontiere esterne, non lungo quelle interne: è come Carlo Magno quando nell’800 fondò il Sacro Romano Impero e lo divise in Contee e Marche. I Marchesi avevano più soldi e potere perché dovevano difendere i confini di tutti dagli assalti barbarici.
La nuova destra è ferma lì, all’anno Ottocento. Noi, invece, ci godiamo l’opportunità di spaziare in un intero continente, considerando l’aeroporto di Orly parte integrante della nostra identità come quello di Punta Raisi. Come Faust e come Corneille. Lo facciamo da anni e non ci abbiamo nemmeno riflettuto abbastanza. Forti di questa nuova identità, ci confronteremo e ci mescoleremo con i barbari. Come predicava Faust, nell’edizione del 1832. E come voleva testimoniare Strehler al suo pubblico – ignaro – del 1989. In fondo, Schengen ha salvato Goethe.