Europa è una parola strana, cominciando dal nome. Intanto Europa, quella che Zeus corteggiò alla sua maniera travestito da Toro, era fenicia e veniva dal medio Oriente. Poi a lungo fu la denominazione geografica di un pezzo pianeggiante della Grecia. Ai romani la parola non piaceva e non la usavano. Ci vollero prima i monaci e poi Carlo Magno per darle un senso, almeno geografico, simile a quello con cui la usiamo oggi. Il senso politico è arrivato molto dopo, se escludiamo l’idea di Impero (quello Sacro e Romano) che però c’entra poco e che somiglia molto ad una Germania, tant’è vero che quando Hitler inventa il Terzo Reich intende affermare che il suo potere è il successore del primo, ovvero del Sacro Romano Impero e dell’impero Guglielmino. Ma qui stiamo perdendoci.
Torniamo in Europa. La mia generazione aveva sviluppato una gran passione per concetti e luoghi diversi: il Terzo Mondo, i paesi emergenti, i “non allineati”, Cuba, il Vietnam, la Cina. Certo c’erano Spinelli e Rossi, ma non erano conosciuti come ora. Il prefisso euro era tornato in auge - nel bene e nel male - negli anni settanta con l’eurocomunismo di Berlinguer e poi negli anni ottanta con gli euromissili che non erano altro che missili nucleari a medio-corto raggio puntati sui paesi europei (sull’Europa dell’ovest gli SS 20 sovietici, su quella dell'est i Pershing e i Cruise della Nato).
Per storia, l’Europa – al di là del concetto geografico – non faceva parte del bagaglio della sinistra. Il Pci aveva combattuto la Nato e guardato con diffidenza la Comunità del Carbone e dell’Acciaio. E la Comunità di quegli anni sembrava soprattutto un “ricalco” economico dell’Alleanza Atlantica e della divisione in blocchi. Ci volle – dicevamo – Berlinguer per ridargli un valore positivo mischiando insieme la parola Europa e la parola comunismo. Era – con gli occhi di oggi – un tentativo un po’ disperato di uscire dalla morsa delle contrapposte fedeltà, quella sovietica e quella americana, senza cancellare il concetto di comunismo e insieme allargando l’idea di Togliatti, che aveva tenuto a galla il Pci, di “vie nazionali al socialismo”. La dimensione nazionale non bastava più e per fortuna i partiti fratelli francese e spagnolo si erano finalmente decisi a cercare una loro autonomia dalle logiche moscovite. L’eurocomunismo non durò a lungo, ma servì a far cambiare l’immagine dell’Europa agli occhi della sinistra, almeno di quella del Pci.
Ma mi viene in mente anche uno strano ricordo del ’68. Da Parigi era arrivato lo slogan forse più iconico del Maggio: “Ce n’est qu’un debut continuons le combat”. Era talmente ritmato e bello da cantare che per invidia i fascisti ne inventarono un calco che aveva lo stesso ritmo e suonava così “Pour l'Europe nation continuons le combat”. Strano eh! I sovranisti di adesso, quelli delle piccole patrie, volevano l’Europa nazione, gli internazionalisti di allora la vogliono adesso. Ma anche questo è un altro discorso.
Quando si gettarono le basi dell’euro l’Italia era l’ultima della classe: aveva manovrato con le svalutazioni competitive per abbattere il debito e per fare concorrenza indebita al resto d’Europa, era stata cacciata via dal “serpente monetario europeo” per l’incertezza dei suoi tassi di cambio. Poi era diventata la prima della classe con Ciampi e Prodi con l’inflazione presa a martellate e la Francia e la Germania costrette a riammetterci tra i “paesi di testa” quando invece l’euro era stato progettato senza di noi. E’ lì, tra la grande crisi del 1993 e la vittoria dell’Ulivo del 1996, che la sinistra costruisce una nuova idea dell’Europa di cui l’euro non è solo la moneta ma anche il simbolo.
Quando la moneta unica divenne realtà era già cambiato tutto: Berlusconi era tornato al governo, lui che dell’euro si era sempre fregato si trovò a gestirne il debutto. Ricordo che il valore della moneta, fissato a 1916 lire per un euro era giudicato a destra troppo alto, come se nella trattativa per entrare nell’euro Prodi e Ciampi si fossero fatti incastrare. Il fatto è che quel valore divenne agli occhi della gente di 2000 lire per euro e alla fine solo i poveri continuavano a tradurre i prezzi nella vecchia moneta. Era stato un inverno freddo, molte colture erano in difficoltà, i prezzi delle verdure schizzarono (e un motivo c’era), quelli di tutto il resto fecero altrettanto (e stavolta l’unico motivo era la “distrazione” interessata del governo Berlusconi e il gioco al rialzo di industrie e commercianti).
Ricordo quei mesi strani in cui le lire convivevano con gli euro, quando ci si trovava in tasca le vecchie banconote e si andava a cambiarle in banca. Quando l’Italia che aveva vissuto l’assurdità dei miniassegni per mancanza di monete si trovò inondata di monetine bicolori grandi come le vecchie 500 lire ma che valevano come due banconote da mille. C’erano le banconote grandi, quelle viola da 500 (in realtà credo di averle viste un paio di volte in vita mia) quelle ancora più curiose e gialle da 200, quelle verdi da 100. Sembravano una cosa strana: con Amato al governo si era parlato di fare nuove lire che valessero 1.000 di quelle vecchie. L’avevano fatto i francesi che per anni non ci capivano nulla tra vecchi e nuovi franchi. Le banconote da 500 euro valevano più di una pensione sociale, per tanti sarebbero state un abbondante mezzo stipendio mensile. Mi ricordavano un film americano, un bellissimo film di Altman tratto da un romanzo di Chandler che forse è il suo più bello e confuso: “Il lungo addio”. Dentro quel film tra tradimenti e amicizia, tra finzioni e ricerca della verità compariva misteriosamente una banconota da 5.000 dollari. Una vera fortuna. Ecco, mi sembrava di avere in mano quei famosi 5.000 dollari.
Poi ci saremmo abituati e ogni tanto mi chiedo se qualcuno a mente si fa il conto di quanto costerebbe in lire un caffè, un giornale, un pranzo al ristorante. A me capita ancora talvolta, ma senza nostalgia. Quel passaggio d’epoca dell’euro dava alle nostre vite una dimensione più larga. D’altra parte stando all’etimologia Europa non significa altro che “ampio sguardo”. Tornare indietro non sarebbe solo una rovina economia, sarebbe anche indossare un paio di paraocchi.