LO SMART WORKING
E LE DONNE
CHE NON SCELGONO
Anna ha trentanove anni, vive a Roma, è single, assunta a tempo indeterminato con uno stipendio discreto, ma con una voce “affitto” che pesa tantissimo sulle sue entrate. Francesca di anni ne ha 36, è sposata, ha una buona posizione lavorativa, ottime entrate grazie anche al notevole stipendio del marito, ma vive all’estero, lontana dalla famiglia e da ogni possibile sostegno. Giovanna invece ha 34 anni, un compagno e una figlia, una bella casa a Milano di proprietà, una famiglia pronta a ogni genere di aiuto, anche economico, ma ha una posizione lavorativa super precaria, con partita iva in regime forfettario e clienti assai volubili.
Che cosa hanno in comune Anna, Francesca e Giovanna, a parte un nome di fantasia e l’aver superato da un po’ i trent’anni? La determinazione e il coraggio di fare un figlio. A dispetto della loro situazione, dei consigli delle amiche e dei luoghi comuni.
Tra figli e carriera hanno scelto entrambi. O forse non si sono nemmeno poste la domanda. Perché in effetti questa idea che a un certo punto della vita ci si trovi davanti al bivio “figli o carriera?” è molto lontana dalla realtà. Le donne di solito scoprono dell’esistenza del bivio quando l’hanno passato da molti chilometri e anche ripercorrendo mentalmente la strada a ritroso si rendono conto che proprio di bivio non si trattava, semmai di percorsi alternativi e deviazioni a un cammino comunque disseminato di luoghi interessanti e frequentato da persone affascinanti.
Ma tant’è, Anna, Francesca e Giovanna il figlio l’hanno fatto (Giovanna anche il secondo) semplicemente perché lo desideravano. E non hanno nemmeno preso in considerazione l’idea di rinunciare al loro lavoro (e alla loro carriera). Se la stanno cavando bene perché possono approfittare di una nuova possibilità: lo smart working. Lavorare fuori dall’azienda o dallo studio ha i suoi vantaggi per una madre. Si capisce subito. Ma perché questo si possa chiamare smart working bisogna che mostri una qualche forma d’intelligenza. Lo spiega bene anche l’articolo 18, comma 1, della legge 81 del 22 maggio 2017: lo smart working è una “modalità di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato stabilita mediante accordo tra le parti, anche con forme di organizzazione per fasi, cicli e obiettivi e senza precisi vincoli di orario o di luogo di lavoro, con il possibile utilizzo di strumenti tecnologici per lo svolgimento dell’attività lavorativa”. Da notare come questa modalità sottintenda proprio una concezione qualitativa del lavoro. Il tema non è quanto si riesca a lavorare (o produrre), ma come.
Microsoft Italia, per esempio, ha introdotto lo smart working dieci anni prima della pandemia offrendo ai propri dipendenti una nuova flessibilità del lavoro, che permette di bilanciare al meglio vita professionale e vita privata e insieme garantisce un elevato livello di produttività. È un approccio diverso, che sottintende un’organizzazione del lavoro più elastica e attenta alle responsabilità dei singoli.Ciascuno ha la possibilità di decidere tempi e modi per svolgere le proprie attività, dentro o fuori l’ufficio, sulla base di una pianificazione periodica condivisa con il proprio responsabile. Per questo tutti i dipendenti hanno in dotazione strumenti tecnologici adeguati.
A regolare lo smart working è un accordo individuale che include regole precise anche per la disconnessione, tipo la pausa pranzo, la fine della giornata, i permessi e pure le vacanze (perché non è che si può essere a disposizione della propria azienda 24 ore su 24, sette giorni su sette). La differenza, come dimostra l’esperienza di Microsoft, la fanno il datore di lavoro (o cliente/committente che sia), il suo livello di cultura digitale e, come sempre succede, anche di cultura generale.
Lo smart working rappresenta un’arma potente per coniugare al meglio vita professionale e privata, ma anche per l’equilibrio all’interno della coppia e della famiglia dei carichi del lavoro di cura e, aggiungiamo pure, dell’armonia. Questo presuppone però che padri e madri siano coinvolti alla pari nella maternità e nella cura dei familiari “deboli”. Un tema ancora delicato su cui occorre fare molta strada. E Infatti l’Europa con la direttiva numero 2019/1158 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 20 giugno 2019, ha recentemente ribadito la necessità di potenziare i contrappesi alle leggi nazionali di tutela della maternità (e della cura) chiedendo, tra le altre cose, di introdurre il congedo obbligatorio di paternità.
In conclusione, chi avesse mai pensato di aver visto finalmente sdoganato lo smart working in Italia grazie alla pandemia, meglio che freni l’entusiasmo. Quando si lavora da casa, con strumenti e attrezzature proprie, orari e modalità di lavoro identiche all’ufficio e un “capo” che controlla costantemente le tue prestazioni si parla di home working, letteralmente lavoro da casa. La legge stabilisce che con questa modalità al lavoratore venga concessa la possibilità di svolgere il lavoro in ambienti che rientrino nelle sue disponibilità, come la casa. E stabilisce anche che il carico di lavoro sia in tutto e per tutto equiparabile a quello svolto dalla stessa persona sul luogo di lavoro. Quindi nell’home working conta il “quanto”, non il “come”.
Nel caso di Anna, Francesca e Giovanna si tratta di una differenza grandissima. Come ha segnalato lo stesso Ministero dell’Economia e delle Finanze nel Bilancio di genere pubblicato all’inizio del 2022: “L’utilizzo dello smart working emergenzialeha permesso di evidenziare come gli strumenti di conciliazione possano avere effetti paradossali nella riduzione dei divari quando non vengano, essi stessi, fruiti in maniera paritaria”.
Ce la ricordiamo tutte la pandemia e la trasformazione delle donne in creature mostruose in grado di manifestarsi contemporaneamente sotto forma di lavoratrici, mamme, baby sitter, insegnanti, badanti, colf, cuoche... tutte a tempo pieno.