I MANAGER
E LA PAURA
DELLO SMART
WORKING
Il 9 settembre del 2022 un comunicato del Comitato di redazione di RCS Periodici ha reso noto che “Cairo dice No allo smart working”. I giornalisti spiegavano: “Il lavoro agile è uno strumento utile per qualsiasi azienda moderna. Fa aumentare produttività e competitività; rende i dipendenti più autonomi e responsabili; aiuta l’ambiente; infine, in un periodo di emergenza energetica, consente importanti risparmi economici. Non a caso la politica tutta dimostra attenzione e volontà di sostegno al ricorso allo smart working. Il nostro editore, no. Urbano Cairo nega qualsiasi possibilità di ricorso al lavoro agile, persino per i dipendenti con problemi di salute e di famiglia, e rifiuta da mesi l’avvio di un confronto sindacale”. Ma Cairo non cede. E un mese dopo, il 13 ottobre, i lavoratori di RCS Media Group postano sui social un video-comunicato così presentato: “Il mondo è cambiato, noi siamo cambiati... non tutte le aziende hanno capito che opporsi al cambiamento è antistorico e pericoloso. Grazie per la condivisione!!”. Ma da RCS pochi segnali e nessuna svolta reale.
Sia chiaro, Urbano Cairo non è il solo a osteggiare il lavoro in remoto. E nemmeno il più determinato. Peggio di lui ha fatto per esempio David Solomon – amministratore delegato di Goldman Sachs – che, in piena pandemia, ha definito il lavoro da casa “un’aberrazione che correggeremo il più in fretta possibile”. Il sentimento è globale. Un articolo comparso nell’estate del 2020 sulla Harvard Business Review, con l’emergenza Covid ancora in corso, analizzava il fenomeno dando alcuni numeri: il 38% dei manager è certo che i lavoratori da casa forniscano prestazioni peggiori e il 41% è scettico sul fatto che possano rimanere motivati per tutto il tempo; c’è poi un timore generalizzato che i talenti possano sfuggire più facilmente per andare altrove.
E questo è proprio il punto. I manager hanno paura di perdere il controllo e di non poter riferire adeguatamente ai propri superiori. In gioco ci sono sostanziosi premi di produttività che, evidentemente, non è la loro ma quella dei lavoratori che dirigono. Il tema è delicato e riguarda la messa in discussione del modello di gestione aziendale fino a oggi dominante. Come sottolineano infatti le autrici dell’articolo, Sharon K. Parker, Caroline Knight and Anita Keller, “quando si dà alle persone la libertà di decidere autonomamente come e quando lavorare, è importante valutare se stanno fornendo i risultati. Pertanto, i manager devono concentrarsi maggiormente sugli esiti del lavoro invece che sulle istruzioni”. O, come direbbero i manager, sugli output piuttosto che sugli input.
La pandemia, anche nel caso del ricorso massiccio al lavoro da remoto, non ha fatto però altro che accelerare una crisi già in atto, quella del modello dominante di organizzazione aziendale. Le teorie e le pratiche del management classico, come lo abbiamo conosciuto dalla fine degli anni 60, avevano da tempo mostrato i propri limiti di fronte al nuovo mondo globale e digitalizzato. Una lettura interessante del fenomeno era stata proposta da The Atlantic nel gennaio del 2020, quando il Covid-19 non era nemmeno un tema in agenda, in un articolo intitolato “How McKinsey Destroyed the Middle Class” (Come McKinsey ha distrutto la classe media). Tra gli scopi dell’autore, Daniel Markovits, c’era probabilmente anche quello di scoraggiare la corsa di Pete Buttigieg, il candidato alle primarie democratiche per le presidenziali 2020 con un passato nella multinazionale di consulenza strategica, ma il quadro che dipingeva del management americano era inquietante.
Perché McKinsey sia cruciale lo spiegano i numeri: l’azienda affianca i manager di 90 delle 100 maggiori società del mondo e da almeno la metà degli anni 60 è leader indiscusso e modello di riferimento del settore. Markovits ha così sintetizzato il tema: “I consulenti di gestione consigliano i manager su come gestire le aziende (…) I manager non producono beni né forniscono servizi. Pianificano invece quali beni e servizi fornirà un’azienda e coordinano gli addetti alla produzione che realizzano l’output. Poiché beni e servizi complessi richiedono molta pianificazione e coordinamento, la gestione (anche se è solo indirettamente produttiva) aggiunge molto valore. E la classe dei manager acquisisce gran parte di questo valore sotto forma di retribuzione”.
Prima non funzionava in questo modo. Come racconta Markovits, “Ogni lavoratore, dall’amministratore delegato fino al personale di produzione, fungeva in parte da manager, partecipando alla pianificazione e al coordinamento lungo un continuum ininterrotto in cui ogni lavoro assomigliava molto al suo vicino più prossimo. I quadri intermedi, o uomini dell’organizzazione, coordinavano la produzione tra i dipendenti. A loro volta, le aziende trasmettevano ai lavoratori le competenze di cui avevano bisogno per salire di livello. I quadri intermedi, in grado di pianificare e coordinare la produzione indipendentemente dal controllo esecutivo dell’élite, condividevano non solo le responsabilità ma anche il reddito e lo status ottenuto dalla gestione delle loro aziende. I massimi dirigenti godevano di un controllo proporzionalmente inferiore e avevano stipendi inferiori”. In conclusione l’autore, citando anche il famoso libro del 2010 di Walter Kiechel III “The Lords of Strategy”, spiegava che le cose sono cambiate a partire dagli anni 60, quando McKinsey è diventata il leader di settore e ha di fatto concentrato la funzione di gestione nelle mani di un’élite di dirigenti, aiutati neanche a dirlo dai propri consulenti, mettendo a punto un vero armamentario di strategie e processi contro il middle management.
Che l’ascesa della consulenza manageriale abbia avuto conseguenze rilevanti sull’organizzazione del business, non solo americano, e sulla vita dei lavoratori è fuori discussione. Che i consulenti di direzione stiano nell’epicentro della disuguaglianza economica e della distruzione della classe media americana è dimostrabile. Altrettanto certo è però che, di fronte ai grandi problemi di giustizia sociale che si pongono oggi anche nell’Europa campionessa del welfare, il modello McKinsey e quell’organizzazione aziendale non hanno più molto senso.
Ma cambiare non è facile per tutti allo stesso modo. Secondo una ricerca dell’Osservatorio Smart Working della School of Management del Politecnico di Milano relativa al 2022, lo smart working è presente nel 91% delle grandi imprese italiane (era l’81% nel 2021), mediamente con 9,5 giorni di lavoro da remoto al mese e progetti che quasi sempre agiscono su tutte le leve che caratterizzano questo modello. Nelle piccole e medie imprese si registra la tendenza opposta: lo smart working è passato dal 53% al 48% delle realtà, in media per circa 4,5 giorni al mese. A frenare il fenomeno, dice l’Osservatorio del Politecnico, è la cultura organizzativa che privilegia il controllo della presenza e percepisce lo smart working come una soluzione di emergenza. Eppure, come rileva la stessa ricerca, gli smart worker “veri”, quelli che oltre a lavorare da remoto hanno anche flessibilità nella gestione degli orari e lavorano per obiettivi, hanno livelli di benessere e di coinvolgimento più elevati di chi lavora in sede e, soprattutto, di chi lavora da remoto senza altre forme di flessibilità.
Questo è il tema cruciale e infatti le autrici del già citato articolo dell’Harvard Business Review così concludevano: “Sembra che durante la pandemia di Covid-19 diversi manager abbiano faticato ad adattarsi alla gestione dei dipendenti senza poterli vedere. Di pari passo con le difficoltà dei manager, molti dipendenti hanno subito gli effetti negativi di uno stretto monitoraggio e della sfiducia dei loro capi. La buona notizia è che questi manager possono essere supportati e formati per gestire i propri dipendenti in modo più efficace a distanza”. Ecco, i consulenti potrebbero trovare un business alternativo nel dedicarsi a formare e motivare remote managers, remote owners e remote shareholders. C’è molto bisogno di manager, padroni e azionisti smart.