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7 marzo, 2023

FUTURI DIGITALI
LAVORARE GRATIS
E RIDURRE
IL SONNO

di Silvia Botti

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Ci sono cifre che spaventano. Per esempio, gli oltre 19 milioni di risultati che Google presenta alla voce "Lavorare gratis" in 0,37 secondi. In un mondo normale la ricerca dovrebbe produrre una segnalazione di errore, almeno un "Forse cercavi: …" evidenziato in rosso. No. Lavorare gratis si può e secondo molti si deve. Anche nella pubblica amministrazione. E non importa di che colore siano i governi che si dedicano alla sciagurata pratica. Due esempi per tutti (ma potrebbero essere centinaia in tutta Italia).

Comune di Genova, come riportato dall’edizione locale del quotidiano La Repubblica lo scorso 21 gennaio: “Genova, volontario super qualificato cercasi: sei mesi di lavoro gratis al Museo del Mare per quattro giorni a settimana”. E nel sommario si specifica: tra le competenze richieste, capacità di ricerca delle fonti storiche e padronanza dell’inglese “meglio se perfettamente bilingue”.

Comune di Milano, progetto “Un nome in ogni quartiere”, sviluppato in collaborazione con Ufficio Arte negli Spazi Pubblici e sostenuto da Fondazione di Comunità Milano. Obiettivo, “realizzare tanti murales sparsi per la città, con il nome del quartiere, a salutare non solo i residenti ma anche chi passa o visita la zona”. Nell’avviso pubblico per individuare una’associazione di volontariato o di promozione sociale ai fini della stipula di una convenzione per la realizzazione del progetto si legge: “Le attività dovranno essere realizzate con presenza di volontari”. I 130mila euro stanziati servono però unicamente per retribuire il personale dipendente e gli artisti ingaggiati o per rimborsare costi di produzione e spese varie. E si specifica: “È fatto divieto di retribuire i volontari, se non a titolo di mero rimborso per eventuali spese sostenute e documentate. Sono in ogni caso vietati rimborsi spese di tipo forfettario”.

Lavorare però è un verbo con un significato preciso, riportato in qualsiasi dizionario della lingua italiana. Prendiamo quello di Hoepli: “Attività materiale o intellettuale per mezzo della quale si producono beni o servizi, regolamentata legislativamente ed esplicata in cambio di una retribuzione”. Lavorare gratis è quindi un ossimoro. Dovrebbe starsene lì tranquillo tra le figure retoriche, come un “ghiaccio bollente” o un “assordante silenzio” qualsiasi, e invece il fenomeno si insinua nell’economia ed è destinato a crescere grazie ai processi di digitalizzazione.

 

Stiamo parlando di lavoro gratuito non volontario che si manifesta sotto forma di straordinari non riconosciuti, stages non pagati, lavoro a tempo pieno remunerato come fosse part time. Ma anche più banalmente nel rispondere alle e-mail fuori dall’orario di lavoro, preparare progetti o preventivi per concorsi/contratti che non andranno in porto, saltare la pausa pranzo per finire un compito. E poi nelle nuove forme del lavoro precario. Come ha spiegato in una recente intervista Spartaco Greppi, economista e responsabile del Centro di competenza lavoro, welfare e società della Scuola universitaria della Svizzera italiana alla tv svizzera: “La natura trasversale del lavoro gratuito è il frutto dell’estensione del modo di lavorare e di organizzare la produzione tipica della gig economy (basata sul lavoro flessibile, temporaneo, ndr.). Ossia il work-on-demand (o lavoro su chiamata, ndr.) via app, che mette in relazione un cliente e un/a lavoratore/lavoratrice: ciclofattorini di Deliveroo, di Uber Eats, eccetera, autisti di piattaforme come Uber e Lyft, altre attività intermediate da una piattaforma digitale, come nel caso delle attività dei lavori di economia domestica di helping; oppure il cosiddetto crowdwork, ossia il subappalto di un lavoro a una vasta platea di persone su Internet (la folla, appunto), sotto forma di gara aperta, il cui esempio paradigmatico è Amazon Mechanical Turk”. Sono tutte persone che restano ingaggiate gratuitamente tra una prestazione retribuita e l’altra, impegnate in rete, anche per molte ore, a cercare un’occasione di lavoro.

 

Per anni gli studiosi si sono esercitati a prevedere come sarebbe cambiato il lavoro nel futuro grazie alla predominanza della tecnologia. Nel 2013 due studiosi dell’Università di Oxford – Carl Benedikt Frey e Michael Osborne – hanno fatto un certo clamore con lo studio “The Future of Employment: how susceptible are jobs to computerisation?” in cui stimavano la possibile scomparsa del 47 per cento delle professioni ripetitive e prevedibili esistenti, sia manuali che intellettuali, lasciando speranza di vita solo ai lavori con un contenuto umano (human touch). Una previsione avvalorata poi da molti altri istituti di ricerca, non solo accademici, pubblici e privati. Il tema per anni è stato questo: come gli esseri umani sarebbero stati sostituiti dalle macchine prima e dall’intelligenza artificiale poi. Che avremmo finito per lavorare gratis, o comunque pagati molto meno, non l’ha previsto nessuno o magari si, ma non è stato giudicato più credibile di un androide in grado di fare il commercialista e quindi non se ne è parlato.

 



Non ci è stato nemmeno spiegato che nell’era digitale divertendoci e rilassandoci, navigando su YouTube o sui social, magari producendo autonomamente forme di intrattenimento per i nostri amici, avremmo contribuito significativamente a costruire colossali imperi economici e immani fortune finanziarie senza ricavarne nulla o al massimo briciole. L’economia digitale sfrutta qualunque attività. Taggare un’immagine, aggiungere o tradurre una didascalia ci sembrano nulla, ma sono attività in grado di produrre dati personali e comportamentali di cui le piattaforme si appropriano gratuitamente. E non pensino di essere dei privilegiati gli youtuber capaci di generare grandi introiti pubblicitari: ne ricevono comunque una minima parte, a volte proprio nessuna.

Il problema non sembra essere rilevante per la maggior parte delle agende della politica o delle organizzazioni del lavoro. Magari se ne parla, ma non costituisce un’urgenza per nessuno. Attenzione che l’ultima frontiera digitale è il sonno. Ci stanno lavorando da diversi anni. E del resto, un’economia aperta 24 ore su 24, 7 giorni su 7 e in grado di sfruttare ogni opportunità pensiamo davvero che possa astenersi dal mettere le mani su un terzo della nostra vita, quello che trascorriamo dormendo?





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