CENTRI STORICI
TUTTI CITTADINI
O TUTTI CLIENTI
Lo scorso 23 febbraio Confcommercio ha presentato la settima edizione dell’Osservatorio sulla demografia di impresa nelle città italiane realizzata in collaborazione con il Centro Studi delle Camere di Commercio 'G. Tagliacarne'. In sintesi, tra il 2012 e il 2022 sono sparite, complessivamente, oltre 99mila attività di commercio al dettaglio e 16mila imprese di commercio ambulante. Sono invece risultati in crescita alberghi, bar e ristoranti (+10.275) così come la presenza straniera nel commercio, sia come numero di imprese (+44mila), sia come occupati (+107mila); mentre si sono ridotte le attività (–138mila) e anche gli occupati italiani (–148mila).
L’analisi, concentrata su 120 città medio-grandi, ha dimostrato che la riduzione di attività commerciali e la crescita dell’offerta turistica risultano più accentuate nei centri storici con il Sud caratterizzato da una maggiore vivacità commerciale rispetto al Centro-Nord. Mariano Bella, direttore dell’Ufficio studi di Confcommercio ha così commentato i dati: “Complessivamente la doppia crisi pandemica ed energetica sembra avere enfatizzato i trend di riduzione della densità commerciale già presenti prima di tali shock. L’entità del fenomeno non può che destare preoccupazione”.
I giornalisti si sono buttati sulla notizia enfatizzando o distorcendo la faccenda al punto che il primo marzo Bella ha dovuto puntualizzare: “Non abbiamo mai detto e non diremo mai che le nostre città e i nostri centri storici corrono un rischio di desertificazione, stanno semplicemente cambiando aspetto”. E infatti i dati dimostrano come sia cambiato il tessuto commerciale all’interno dei centri storici con sempre meno negozi di beni tradizionali (libri e giocattoli –31,5%, mobili e ferramenta –30,5%, abbigliamento –21,8%) e sempre più servizi e tecnologia (farmacie +12,6%, computer e telefonia +10,8%), attività di alloggio (+43,3%) e ristorazione (+4%).
In effetti anche il passante più distratto non può non aver notato i cambiamenti. Tuttavia l’accelerazione nella trasformazione dell’offerta commerciale urbana dura da almeno trent’anni ed è stata progressiva. Prima sono scomparsi i negozi di alimentari lasciando spazio alla grande distribuzione, poi è toccato a quelli di moda e accessori che hanno liberato posti per telefonia, tecnologia (compresi i blockbuster dove noleggiare video cassette), agenzie immobiliari e istituti di credito; poi sono arrivati bar e ristoranti a occupare le vetrine di tutte le attività in difficoltà a causa dell’ascesa dell’ecommerce, comprese le banche, e ora è la grande distribuzione a frammentare la sua rete attraverso l’apertura di piccoli supermercati di prossimità negli spazi lasciati liberi.
Proprio quest’ultimo fenomeno è indicativo di ciò che di altro, e clamoroso, sta succedendo nelle città e in particolare nei centri storici: l’espulsione di residenti per lasciar spazio ai turisti o agli affittuari di breve periodo. Era già successo molti anni fa in favore di uffici e spazi commerciali, soprattutto in alcune grandi città, ma ora il fenomeno è generalizzato e riguarda anche i piccoli centri. Lo si capisce proprio osservando l’assortimento sugli scaffali dei piccoli supermercati delle aree centrali: quasi tutto cibo già pronto e bevande già fresche, da consumare al volo o al massimo da riscaldare nei microonde o sulle piastre elettriche in dotazione negli Airbnb. Insomma un’offerta alternativa ai costosissimi bar e ristoranti dei centri storici, dedicata a turisti di fascia medio/bassa, agli studenti fuori sede o ai lavoratori.
Il fatto è che gli allarmi sul ruolo di Airbnb nello spingere i residenti fuori dai centri storici non hanno mai scaldato veramente i cuori degli amministratori delle città turistiche, felici di veder piovere nelle casse comunali milioni di euro grazie alla tassa di soggiorno: ben 622 nel 2019 (42 per la sola Firenze). Semmai a preoccupare la politica è la rivendicazione di natura sindacale di albergatori ed esercenti vari, stufi di vedersi sottrarre clienti da una concorrenza giudicata sleale come quella dei privati cittadini coi loro piccoli bed&breakfast.
Tanto è vero che molte città hanno scelto di puntare proprio sul turismo per sviluppare la propria economia, vendendo anche diversi immobili di pregio di proprietà pubblica per trasformarli in hotel, residence e centri commerciali.
Solo la pausa forzata dei flussi turistici causata dalla pandemia ha creato il panico. Giusto per quantificare, nel 2020 l’incasso totale della tassa di soggiorno nei quasi 970 comuni che la prevedono è stato di soli 192 milioni di euro e nel 2021 di 263. “Nulla sarà più come prima”, si diceva anche per il turismo. Molti sembravano auspicare il ritorno dei residenti nelle città svuotate di turisti, pensando soprattutto ai giovani, agli studenti, ai ricercatori, agli imprenditori delle start-up e di un’economia sostenibile in un ritrovato rapporto tra città e campagna circostante. Sono stati anche finanziati studi sulla rifunzionalizzazione dei centri storici.
Come ha dichiarato l’economista Alessandro Leon nel maggio del 2020 a Internazionale, nel pieno del dibattito sul ripopolamento dei centri storici post-pandemia: “Ci si è affidati alla rendita turistica, ma la rendita costituisce sempre un problema, perché espelle la popolazione dalle zone più ricche e centrali della città, ostacola l’investimento delle imprese, rallenta l’innovazione tecnologica, frena l’imprenditoria giovanile”. Tutte iniziative, ha aggiunto, che vanno riportate nella città consolidata, compresi i centri storici. “Bisogna rendere conveniente abitare e produrre nelle aree centrali. Una città il cui centro si svuota e si riempie di turisti è più costosa. Ora si offre l’occasione per invertire il cammino, incentivando la formazione di distretti culturali, legati all’editoria, al cinema, al teatro, al design”. Come? Con una forte iniezione di risorse pubbliche, ha spiegato Leon, anche a debito e arrivando persino a prevedere strumenti come l’esproprio: “Non è facilissimo, ma occorre essere ambiziosi”.
Il PNNR, di cui ancora non si aveva notizia, avrebbe potuto essere un bello strumento per avviare processi virtuosi. Ma agli amministratori cittadini è bastato vedere il buon andamento della tassa di soggiorno nel 2022 (le stime dell’Osservatorio nazionale di Jfc, società di consulenza turistica e territoriale, prevedevano incassi per 472 milioni, pari al +79,5%) per tornare in un lampo alla situazione pre-pandemia. Provate a organizzare una qualsiasi attività – un corso, un laboratorio, una fiera – che richiami persone nel week end in una qualsiasi città turistica e vedrete che andrà deserta: difficile trovare da dormire e quasi impossibile a prezzi accettabili, a Firenze come a Roma, a Venezia come a Milano.
Per quanto le città possano incassare dalle tasse di soggiorno, per quanto un’amministrazione possa reinvestire per abbellire vie e piazze, resta il fatto che una città è fatta soprattutto del suo spazio pubblico. Dei luoghi dove le persone si incontrano e si possono sentire cittadini, non semplici consumatori. Proprio questo spazio pubblico oggi è invece regalato agli esercenti per costruire verande, gazebo e dehors dove alloggiare sedie, tavolini e attività riservate esclusivamente ai clienti. Mentre strade e piazze risultano sempre più spesso interdette ai giochi dei bambini, alle relazioni sociali o all’intrattenimento anche semplicemente per l’assenza di panchine o di spazi in cui sostare in gruppo.
Sembra poco, ma è ciò che può fare davvero la differenza. Come scriveva l’architetto Giovanni Michelucci parlando della sua Pistoia: “È questa per me una dimensione che definisco qualità urbana, la capacità cioè dei cittadini di utilizzare in modo apparentemente improprio spazi non direttamente ad essi destinati, il cui uso è in grado di mettere in relazione fra di loro altri spazi e situazioni creati per altri intenti”.