VOGLIA DI NORMALITÀ
UN ANTIDOTO
ALL'ACCAVENTIQUATTRO
Vi capita mai di attraversare un anonimo quartiere borghese di una qualsiasi città italiana e venire presi da un senso di tranquillità? Nessun guizzo creativo, poco colore, più che altro sfumature e chiaroscuri. E poi forme semplici, un certo rigore geometrico ma senza esagerazioni, un uso misurato del verde, balconi della giusta dimensione. Ci si affaccia ai portoni e si intravvedono cortili ordinati dove c’è posto per ogni cosa e ogni cosa sta al suo posto: le biciclette, i motorini, i bidoni della raccolta differenziata, i vasi di piante e fiori… C’è qualcosa di rassicurante nella normalità, in quello spazio equidistante dal rigore minimalista e dall’eccesso di decorazione, dai fasti del passato come dalle iperboli del contemporaneo.
È quella stessa sensazione di pace che si prova salendo su un mezzo pubblico fuori dagli orari di punta, riuscendo a sedersi e vedendo la città scorrere fluida dai finestrini mentre si viaggia a una velocità regolare senza restare incastrati nel traffico. Si finisce per provarla anche passeggiando la domenica nei piccoli centri urbani dove tutto resta chiuso tranne qualche bar pasticceria e alcuni ristoranti. Può risultare confortante la convenzionalità, quel fluire placido di abitudini che risalgono a tempi lontani, il ritmo regolare che scandisce il giorno e la notte, il sonno e la veglia, il chiuso e l’aperto…
In questo tempo dilatato e insieme accelerato che ci costringe a essere attivi e brillanti 24 ore su 24, 7 giorni su 7, l’idea di un’esistenza ordinaria, senza esagerazioni, governata dai ritmi stabiliti da Madre Natura appare come un’eventualità rara e piacevole che ha il sapore della vacanza e pure un po’ di fascino dell’esotico.
Qualche tempo fa una dirigente di Ikea Italia raccontava raggiante agli amici di aver ottenuto il trasferimento al magazzino di Lugano, in Svizzera: ogni giorno un lungo tragitto per andare e tornare dal lavoro, ma basta con le aperture serali e domenicali. “Finalmente mi riprendo la mia vita!”, esclamava trionfante. Ecco, se una vita da pendolare transfrontaliero finisce con l’apparire desiderabile, qualche domanda tocca cominciare a farsela. Perché lo stile di vita a cui abbiamo deciso di adeguarci non è sostenibile per nessuno alla lunga. È come correre i cento metri tutto il giorno, tutto l’anno, anche di notte, ma vestiti di tutto punto e perfettamente pettinati, senza mai permettere al corpo e al cervello di rifiatare, riposare, recuperare. Il fatto che gran parte della nostra vita, e delle performance che ci vengono richieste, sia virtuale e avvenga a mezzo social, Whatsapp o Zoom, non conta. Il livello di tensione e il dispendio di energia che queste attività comportano sono assai reali. Prima o poi si crolla.
I social e la rete più che permetterci di allargare la nostra sfera di conoscenze, ci hanno “sbattuto” davanti a un pubblico che non è la rete protetta dei familiari, degli amici, dei conoscenti o dei colleghi. È una platea di sconosciuti con diritto di parola e di sentenza. Noi tendiamo a concentrarci sugli haters, sulla cattiveria che sanno esercitare e sul dolore che possono causare, ma la questione è più complessa e maledettamente personale: la gestione della propria immagine pubblica non è cosa per tutti. Vedersi descritti dal giudizio degli altri richiede grande equilibrio interiore e buona capacità di lasciarsi scorrere addosso le cose. Persino i Ferragnez, il modello incontrastato del personaggio famoso al tempo dei social, non hanno retto alla prova di Sanremo. La prima vera occasione pubblica, al di fuori dai meccanismi di protezione della gigantesca rete di fan e followers che li accompagna da anni, è stata una prova terrificante. E per loro stessa ammissione sono crollati sotto la pressione delle polemiche. “Sanremo, ora posso ammetterlo, è stato durissimo, mi sono sentita fuori dalla mia zona di comfort”, ha dichiarato Chiara Ferragni e Fedez ha pure ammesso di non essersi preso cura della propria salute mentale. Per questo si sono presi una pausa. Proprio dai social.
Nella dimensione frastornante in cui siamo costretti
a vivere, la normalità finisce per diventare un lusso a
cui ambire, a volte anche una forma di protesta. Dove
vai in vacanza? Resto a casa a leggere tutto quello che
ho sul comodino da anni, al massimo farò qualche gita
nei dintorni. Che fai a Capodanno? Vado a dormire. A
Pasqua? Inizio la dieta.
Ovviamente ci sono i teorici
della controtendenza. A cominciare da Marie Kondo che ha
legato il suo nome alla filosofia del “decluttering”
(mettere ordine) che consiste nel liberarsi di tutto il
superfluo lasciando spazio solo all’essenziale, nella
vita come nell’armadio. Poi è arrivato anche il
“downshifting” (letteralmente, scalare le marce) ovvero
la decisione di rallentare i ritmi, di lavorare meno
anche guadagnando meno, ma riappropriandosi del proprio
tempo e delle proprie passioni. In Italia massimo
teorico dello stop al “lavoro guadagno spendo” è stato
Simone Perotti col suo libro “Adesso basta”
(Chiarelettere) che però non ha fatto solo teoria, ma ha
raccontato la sua esperienza di manager deciso a
cambiare vita. E infatti oggi fa lo scrittore e il
marinaio. Anche sullo stress e sulla fuga dai social si
sono esercitati studiosi ed esperti. Jaron Lanier, che
di mestiere fa l’informatico e il saggista, ma che
soprattutto è il padre del concetto di “realtà
virtuale”, già nel 2018 aveva dato alle stampe "Dieci
ragioni per cancellare subito i tuoi account social" (Il
Saggiatore) il cui scopo era metterci in guardia sul
fatto che i social network finiranno col provocare
l’estinzione degli esseri umani.
Oggi sempre più persone stanno provando a dire basta, senza per questo isolarsi come un eremita o rifiutare di vivere nel mondo contemporaneo come un amish. Scelgono la normalità. Certo mai avremmo pensato di parlare di tendenza nel 2023 per chi si sente come Marcello Clerici, “il conformista” di Alberto Moravia: “Era la normalità che l’attraeva; e tanto più in quanto gli si rivelava non casuale né affidata alle preferenze e alle inclinazioni naturali dell’animo bensì prestabilita, imparziale, indifferente ai gusti individuali, limitata e sorretta da regole indiscutibili e tutte rivolte a un fine unico”.
E mai avremmo pensato che persino l’ordinarietà e la banalità avrebbero potuto esercitare un certo fascino se paragonate agli eccessi con cui ci bombardano la pubblicità, i social, la rete, la tv, il cinema, il mondo dell’informazione e della comunicazione… E se pensate che manchi solo di rivalutare l’ipocrisia per completare il ritorno in grande stile della mentalità piccolo borghese che credevamo di aver abbattuto per sempre, sappiate che il processo è già iniziato. Il libro di Leonard Mazzone “Ipocrisia. Storia e critica del più socievole dei vizi” (Orthotes) è uscito nel 2020.