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11 aprile, 2023

LO SHED
E GLI IBRIDI
NELLE CITTÀ

di Silvia Botti

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Viviamo in un’epoca particolare in cui ibrido non significa soltanto un incrocio di cose diverse. È una parola chiave. È una sorta di mantra che ci permette di affrontare ciò che non capiamo o di giustificarlo senza bisogno di cercare spiegazioni. Ibrido è il lavoro che cambia, ibrida è la vita divisa tra mondo reale e virtuale, ibrida è la nostra identità fluttuante, ibridi sono i generi in tempi di fluidità sessuale e ibrida è la cultura nel mondo globale. Ovviamente ibridi sono anche gli spazi dove viviamo e dove non siamo più tanto in grado di distinguere tra pubblico e privato, interno ed esterno, ambiente domestico e lavorativo…


Gli spazi ibridi però hanno assunto una valenza strategica di questi tempi. Sono considerati la migliore delle risposte, valida per tutte le domande. Per esempio si incrociano specializzazioni commerciali per ampliare la propria clientela: le librerie diventano caffè letterari, le edicole centri in cui ritirare pacchi ordinati online o sportelli in cui richiedere certificati dell’anagrafe comunale; fioristi e vivai aprono nei loro locali bar e ristoranti cosi come fanno barbieri e parrucchieri (pratica quest’ultima un po’ inquietante per noi di una certa età cresciuti col divieto di parlare di capelli a tavola perché disdicevole).


(Edificio ibrido - studio Marinoni)

Non sempre questi connubi decollano, a volte permettono soltanto di sopravvivere, ma meglio che rassegnarsi. Si mescolano anche le funzioni, sempre con lo scopo di raggiungere un pubblico più vasto e sfruttare spazi che altrimenti rimarrebbero vuoti. I negozi possono così diventare centri di formazione, come i rivenditori di cucine che organizzano cooking show e i monomarca dell’abbigliamento sportivo che propongono lezioni di fitness. Le sedi aziendali invece, soprattutto quelle con ampi spazi e affacci spettacolari, diventano location per eventi.


Nascono poi nuove tipologie in ogni settore: dal più famoso Eataly di Oscar Farinetti che ha unito l’acquisto e il consumo gastronomico offrendo un’esperienza totale ai Combo, la catena di ostelli lanciata dal gruppo Finde con Michele Denegri che combina posti letto low-cost con servizi innovativi (anche laboratori e sale per la musica dal vivo) e rappresenta una vera innovazione nel settore ricettivo per i giovani.


(Cinema all'aperto - Mare Culturale Urbano - foto mincioedintorni.it)

Gli spazi flessibili e polifunzionali, in grado di modificare la propria destinazione d’uso velocemente e di adattarsi anche ai cambiamenti imprevedibili, rappresentano la soluzione ideale in un mondo che si trasforma incessantemente e a grande velocità. Ma il campo in cui hanno assunto il ruolo di salvatori della patria è nei processi di rigenerazione urbana. Alla banalità dei mix funzionali di riferimento degli immobiliaristi – salvo rari casi, ancora oggi non ci si schioda da residenza + uffici + commercio – si sopperisce con fantasiosi inserti ibridi.


Il mondo delle start up e del co-working è fonte di costante ispirazione aiutando a trasformare edifici e capannoni dismessi in santuari della tecnologia digitale, del lavoro flessibile e della creatività dove tutto si mescola. E dove i bilanci spesso non tornano, con la voce ricavi sempre in affanno.


Sono usati anche per rispondere alla domanda di servizi imposta dalle municipalità e le stesse amministrazioni li considerano panacee per guarire vuoti urbani e aree dismesse di scarso valore commerciale. Quasi mai coi risultati sperati. E sono usati perfino per aggirare i vincoli dei piani urbanistici comunali. Per esempio si dichiara di aprire uno studentato con servizi vari e si finisce per gestire un normalissimo hotel con spazi commerciali.

(Lo Shed di New York)

L’architettura ibrida ha anche il suo edificio di riferimento, lo Shed di New York. Progettato da Diller Scofidio + Renfro con Rockwell Group è stato inaugurato nell’aprile del 2019. Come ha scritto Stephen Zacks, raccontando il progetto sulla rivista Abitare: “Lo Shed è un polo artistico multidisciplinare metallico e argenteo alto otto piani, 18.500 metri quadrati avvolti da un involucro semovente di acciaio e plastica semi trasparente che può distendersi in cinque minuti fino raddoppiare la superficie calpestabile della struttura con grande efficacia. Concepito come centro per collaborazioni artistiche interdisciplinari, l’edificio e il suo guscio dispiegabile sono in grado di ospitare mostre di pittura, scultura e media digitali, grandiose performance multimediali di danza, musica e teatro, e soprattutto mescolanze di quanto sopra”. In sintesi, massima flessibilità, spazi riconfigurabili, dotazioni tecniche aperte e predisposte per un futuro lontano. Come ha dichiarato la stessa progettista Liz Diller: "L’idea era creare un’infrastruttura aperta, perché non sappiamo come sarà l’arte né quello che gli artisti faranno tra dieci, venti, trent’anni".



(Preparativi per un'esposizione allo Shed)

Lo Shed ha avuto anche la fondamentale funzione di attenuare le polemiche (e le proteste) attorno a un mega progetto di sviluppo urbano da 25 miliardi di dollari nel West Side di Manhattan. L’accordo con la municipalità prevedeva in origine la costruzione di una piattaforma sopra l’ex scalo ferroviario di Long Island al costo di circa due miliardi di dollari, la presentazione di un piano di sviluppo attuabile e il capitale per realizzarlo. Unica imposizione per la valorizzazione di questo sito da centomila metri quadrati, l’obbligo di costruire una generica struttura culturale da duemila metri quadrati.


Diller e Rockwell ci hanno creduto, hanno collaborato al progetto fin dal 2008, si sono immaginati qualcosa che a New York mancava (e poteva servire) e sono andati avanti nonostante il crollo del mercato immobiliare e il ritiro del costruttore titolare dell’accordo. Potevano contare su una donazione del National Endowment for the Arts e poi anche su uno stanziamento della città da 75 milioni di dollari. Alla fine lo Shed è diventato il landmark del nuovo quartiere, un edificio di notorietà globale, ma come spesso succede alle istituzioni culturali nonprofit vive in precario equilibrio economico, ovviamente acuito dalla pandemia.


La vicenda di questo particolarissimo edificio allungabile ci insegna alcune cose. La prima, basilare, è che cambiano i tempi, si fanno fluidi, ma nei momenti di difficoltà se non c’è il pubblico a dare impulso alle attività tutto si ferma. La seconda, da non sottovalutare, è che il successo di un progetto architettonico non dipende dalla spettacolarità di un edificio, ma dalla sua capacità di rispondere a reali esigenze e di essere per questo abitato e frequentato. La terza è che le ricuciture urbane non possono essere trattini e rettangolini posizionati su una mappa da tradurre poi in architetture e interventi più o meno curati. Dovrebbero essere luoghi vivi, nodi di relazioni che aiutano a ricostruire quell’ambiente sociale che chiamiamo città.









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