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25 aprile, 2023

ESIBIZIONI E MOSTRE
LA MALEDIZIONE
DELLA DIDASCALIA

di Silvia Botti

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In conclusione di questo Salone del Mobile delle meraviglie, l’evento che ha soddisfatto tutti, che ha ristampato il sorriso sulle facce degli addetti ai lavori e che ha reintrodotto le feste corredate di calca e musica assordante con grande gioia dei tanti visitatori, ci sarebbero molte cose da dire. Nel bene e nel male. Ne scegliamo solo una, piccola davvero, ma indicativa di un mondo che sta cambiando: la scomparsa della didascalia. Niente scritte esplicative negli allestimenti di collezioni, mostre o installazioni, che fossero di musei o di aziende, di enti pubblici o privati. Davvero poche le eccezioni. Al loro posto fogli di carta, dal comunissimo A4 fino al formato poster, da tenere in mano come una guida per capire che cosa si sta guardando.

Non è una novità. Sono anni che un certo mondo dell’arte contemporanea si diletta a costringere il visitatore a notevoli sforzi di comprensione, togliendo ogni possibile riferimento dalle opere in mostra, persino il nome dell’autore, e lasciando che la curiosità trovi risposte soltanto nei pieghevoli che si ritirano all’ingresso e che riportano le didascalie una in fila all’altra, rigorosamente senza immagini, lunghe quanto un testo e più simili a un commento che a una spiegazione. Al massimo c’è una planimetria corredata da numeri, che però non è detto si ritrovino anche nel percorso della mostra. E a dire il vero anche i pieghevoli il più delle volte sono in realtà piegabili, cioè tocca allo stesso visitatore ridurli a dimensioni manovrabili. Sempre che capisca di doverli prendere. Perché il pieghevole che si rispetti va appoggiato per terra, meglio ancora se sul bancale con cui è stato trasportato, e deve sembrare capitato lì per caso e in procinto di essere spostato.


Inutile spiegare che non tutti sono in grado di leggere una planimetria, ovvero di individuare senza esitazione in un allestimento tridimensionale ciò che è disegnato su una piantina bidimensionale (tanto è vero che i navigatori o Google maps forniscono anche istruzioni vocali e viste panoramiche globali). Perfino controproducente far notare che per didascalia non si intende un commento del curatore (o dell’autore) sul senso della vita, ma un breve testo con informazioni base quali il nome dell’autore, il titolo dell’opera (o il nome del prodotto), l’anno di realizzazione, la tecnica artistica (o di produzione), la proprietà (o la marca), le dimensioni, il luogo dove viene esposta (o prodotta) ecc.



Eppure gli stessi curatori che non intendono spiegare nulla ai visitatori delle opere esposte, diventano didascalici quando si tratta di compilare i colophon delle mostre. Il pannello di apertura, quello che precede anche l’introduzione – e che dovrebbe riportare titolo, luogo, data, autore, produttore ed enti patrocinanti – ormai ha raggiunto dimensioni ciclopiche e una minuzia di informazioni che nemmeno i titoli di coda di un kolossal hollywoodiano. E ci sta pure l’autore del pieghevole con le didascalie, trattato come un grafico di grido. Pare si perdano interi giorni per stabilire l’ordine dei nomi presenti sul colophon e le dimensioni del carattere con cui vengono scritti. Si rischiano amicizie e relazioni se si sbaglia. Lo scopo di una mostra (e anche di un’installazione) ormai sembra essere la promozione del suo curatore più che l’appagamento del pubblico o il successo dell’ente (o dell’azienda) che lo promuove. Anche al Salone del Mobile.





In ogni caso nell’ambitissimo mestiere del curatore – ormai dilagato dall’arte all’architettura e al design – si fatica a leggere l’arroganza, più facile cogliere la fragilità di una generazione persa tra il sogno di conquistare la curatela di un museo importante, coltivato durante tutti gli studi e la gavetta, e la realtà di un mondo che nel frattempo sta andando a rotoli, con carenze strutturali di risorse, assenza di grandi produttori, mancanza di sponsor ormai distratti da nuove esperienze.


Al curatore non resta che adattarsi, lavorare per qualsiasi committenza e per qualunque scopo cercando di dare un valore intellettuale anche alla più banale delle esposizioni commerciali, compresa la raccolta dei prodotti storici del museo aziendale di un marchio neanche tanto importante del settore arredamento. Si impegna, ci mette l’anima, attiva la propria rete di relazioni e scomoda i propri modelli di riferimento. Nel grande gioco della curatela si finge che tutto vada bene e ci si concentra solo sui particolari.



Per esempio, sui complessi percorsi semantici scelti in alternativa alla banalità della didascalia. Eppure proprio quei brevi testi a lato dell’opera (o del prodotto) di fronte a scelte curatoriali sempre più spesso incomprensibili e di fronte a progetti di allestimento assai deboli, sarebbero l’unico strumento a disposizione di un visitatore per dare un senso e un valore al tempo dedicato a visitare una qualsiasi mostra o installazione. Ma forse il punto è proprio questo: è più importante visitare o dire di avere visitato? Forse ci poniamo problemi superati. Il mondo ormai funziona in un altro modo. E a giudicare dai comunicati stampa conclusivi, anche per il Salone del Mobile i visitatori sono solo numeri da annunciare con viva e vibrante soddisfazione.








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