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23 maggio, 2023

INSEGUIRE UNA VITA
ANALOGICA
E NO CELL

di Silvia Botti


(Immagini da pixabay)

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“Me la sono sempre cavata bene senza possedere uno smartphone, fino ad ora. Ma il Covid ha reso quasi inutile il mio flip-phone Nokia progettato negli anni '90 e già obsoleto. Sono improvvisamente circondato da codici QR. Ora ci sono porte Airbnb che non posso aprire, macchine che non posso avviare, menu che non posso leggere. I menu cartacei sono scomparsi; ordinare cibo è diventato un calvario. A una recente cena con gli amici, dopo alcune chiacchiere iniziali, tutti hanno letto i menu dai loro telefoni. Sono rimasto seduto al tavolo per un minuto a guardarmi intorno e poi ho chiesto con discrezione al mio vicino di guardare. Quando mangio fuori da solo, mostro il mio vecchio cellulare al cameriere e chiedo un menu adeguato. Dopo aver alzato gli occhi al cielo, o tira fuori un menu cartaceo da un caveau sul retro o mi consegna il suo telefono da usare”. Così scriveva sul Guardian il giornalista Jen Wasserstein il 4 novembre 2021.


La situazione oggi appare ulteriormente peggiorata. Vivere senza uno smartphone è impresa titanica, se non si possiede almeno un computer. Essere analogici non appare più un’opzione possibile, almeno in Italia e in buona parte del mondo occidentale, a meno che non si scelga di vivere ai margini della società, abitando in un luogo sperduto e sostenendosi con quel che si raccoglie o si coltiva. Ma senza dare troppo nell’occhio.


In Italia le regole sono chiare: se non hai lo SPID non esisti, non puoi nemmeno controllare lo stato della tua pensione o prenotare una vaccinazione. Lo SPID è obbligatorio per accedere a tutti i servizi della pubblica amministrazione che benevolmente specifica: “Se non si possiede lo SPID, possono esserci due alternative: la Carta di Identità Elettronica – CIE – e la CNS – Carta Nazionale dei Servizi, una smart card corrispondente ad esempio ai dispositivi di firma digitale o alla tessera sanitaria. Entrambe le alternative però vengono utilizzate poco di frequente per i loro requisiti hardware, che richiedono un lettore di smart card o uno smartphone dotato di sistema NFC”.


Da quel 1 gennaio 2016, giorno in cui Julius Hendricks ha pubblicato il suo best seller “Be a Little Analog”, un manifesto della vita analogica tradotto anche in diverse lingue, sono cambiate molte cose. L’autore, classe 1993, ai tempi studente all’Università di Bonn e commesso in una libreria di Colonia, si dichiarava possessore di un cellulare, ma “felice di vivere in un meraviglioso mondo analogico”. L’editore italiano, Corbaccio, così presentava il “Manifesto per una vita analogica” ai potenziali lettori: “Una libreria: otto persone, sette che guardano il loro smartphone; un appartamento: nella cassetta postale tre lettere e tredici pacchetti di Amazon; una cattedrale: venti turisti, diciotto col tablet. Un piatto di spaghetti: un post, 1000 like, buon appetito; due innamorati: due iPhone in mano; una bicicletta, uno smartphone; un’auto… ops attenzione! Cosa è successo al nostro mondo? La nostra realtà non è più quella fisica? La realtà vera è forse il mondo parallelo che si è sviluppato, un mondo digitale che non sembra avere più limiti? In questo libro Julius Hendricks, un ragazzo di ventiquattro anni, spiega perché è così importante non cedere alla quotidiana illusione digitale”.


Importante, ma difficile. Già allora, quando della pandemia non si sapeva nulla, il QR code esisteva ma aveva ancora limitate applicazioni, gli influencer c’erano, però si chiamavano fashion blogger e sembravano addirittura fare un mestiere. Figuriamoci oggi. Il sistema non tollera la non digitalizzazione nemmeno delle fasce più deboli, come gli ultraottantenni, e li costringe di volta in volta a fare affidamento su parenti, vicini di casa, farmacisti, medici di famiglia e anime buone di varia natura per qualsiasi necessità, anche quelle legate ai diritti fondamentali, tipo la salute e il reddito. Le eccezioni si fanno volentieri solo per la merce. Comprare online è magicamente possibile anche se non hai uno smartphone o un computer.



Qui le vie di mezzo trionfano: dal Click & Collect (qualcuno ordina per te online e tu ritiri e paghi in negozio) all’ordine direttamente fatto sul tablet in uso al commesso o alla commessa. Per avere un’idea di chi ci guadagni, ecco cosa spiega del “Click & Collect il sito shopify.com: “Il brand ottiene tre vantaggi in uno: attrarre clienti nel punto vendita per generare vendite aggiuntive, rimuovere gli ostacoli legati alla consegna (tempo e costi) e offrire una migliore esperienza di acquisto ai propri clienti, combinando i vantaggi della tecnologia digitale e della rete di negozi fisici”.


L’aspetto curioso della faccenda è proprio questo. Non riusciamo a liberarci dello smartphone, ma cresce inesorabilmente la vendita di prodotti analogici anche se hanno equivalenti digitali diffusissimi, come i libri e i taccuini cartacei, i dischi in vinile e pure le fotocamere istantanee. Il fenomeno riguarda soprattutto i giovani, anche quelli dell’ultima generazione, i nativi digitali. Gli esperti del mercato dicono che il fenomeno ha due spiegazioni, entrambe banali ma indicative dell’ingresso in una fase più matura della digitalizzazione. La prima è perché l’analogico offre prestazioni che il digitale non può dare; viene per questo considerato complementare, non alternativo. La seconda è che comprare, possedere, toccare, regalare delle cose materiali appaga molto più. Scatta una dimensione se non affettiva, almeno psicologica.





Dai più giovani arrivano anche i segnali più forti di insofferenza verso la dipendenza dallo smartphone. Di certo ha pesato il periodo della pandemia con quei lockdown pesantissimi soprattutto per i bambini e i ragazzi. Ma non basta a spiegare fenomeni di ribellione organizzata come il Luddite Club. Un caso isolato, forse, ma così eccezionale da aver meritato articoli sui giornali di tutto il mondo. Ecco l’attacco del pezzo di Alex Vadukul sul New York Times: “In una pungente domenica, un gruppo di adolescenti si è riunito sui gradini della Central Library in Grand Army Plaza a Brooklyn per dare inizio all’incontro settimanale del Luddite Club, un gruppo liceale che promuove uno stile di vita di auto-liberazione dai social media e dalla tecnologia. Mentre dozzine di adolescenti si dirigevano verso Prospect Park, nascondevano i loro iPhone o, nel caso dei membri più devoti, i loro flip-phones, che alcuni avevano decorato con adesivi e smalto per unghie. Hanno marciato verso una collina che è il loro posto abituale, un tumulo di terra lontano dalla folla del parco. Tra loro c'era Odille Zexter-Kaiser, una studentessa dell’ultimo anno della Edward R. Murrow High School di Midwood che arrancava tra foglie in Doc Martens e calzini di lana spaiati. "È fastidioso se qualcuno non si presenta", ha detto Odille. "Siamo qui ogni domenica, con la pioggia o con il sole, anche con la neve. Non ci teniamo in contatto l’uno con l’altro, quindi devi presentarti”.




Durante gli incontri leggono libri, parlano, disegnano o dipingono acquerelli, magari semplicemente chiudono gli occhi e ascoltano il vento. Non attirano le masse ovviamente. Vengono anche accusati di essere classisti perché appartengono a ricche famiglie e si possono permettere il privilegio di non possedere uno smartphone. Non ne hanno bisogno per essere “inclusi” nella società. Ma le critiche maggiori arrivano dalle loro famiglie. Diversi ragazzi del Luddite Club hanno raccontano che i problemi maggiori nel farsi comprendere li hanno coi loro genitori che sono anche felici di poterli guardare finalmente negli occhi e di avere la loro attenzione, ma sono molto preoccupati di non poterli avere sotto controllo quando sono in giro, soprattutto alle feste del venerdì sera. Altri descrivono genitori che non capiscono nemmeno l’argomento essendo felicemente dipendenti dai loro smartphone e costantemente assorbiti da Twitter e Instagram.








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