LE PISCINE DI MILANO
CHIUSE D'ESTATE
E L'ANIMA
DELLE CITTÀ
L’estate a Milano inizia con una notizia assurda: la gran parte delle piscine comunali all’aperto di cui è dotata resteranno chiuse. Lavori di manutenzione, spiegano dall’amministrazione. In estate? Al culmine della stagione?
Milano evidentemente è sicura di poter fare a meno delle sue piscine. E lo pensa sul serio, al punto che il Comune ha da tempo intrapreso un percorso di privatizzazione di molti impianti comunali. In questo modo la città si leva indubbiamente un grande peso economico, ma si priva anche della possibilità di assicurare ai suoi cittadini accessi e corsi a prezzi contenuti.
La deriva milanese verso standard urbani internazionali proibitivi per i suoi residenti non sembra proprio avere fine. Mentre gli studenti universitari protestano contro il caro affitti dormendo nelle tende montate nei giardini di fronte al Politecnico, la giunta si inventa tavoli di approfondimento sul caro affitti, ma intanto privatizza piscine e saluta con entusiasmo la trasformazione di uno storico cinema, l’Odeon, in un ennesimo tempio dello shopping milanese, anche questo ovviamente rivoluzionario. “Sarà uno spazio innovativo, un hub esperienziale in cui al cinema The Space, ricollocato in più sale al piano interrato, si affiancherà quella che fin da oggi può definirsi come la nuova destinazione commerciale di Milano”, dicono i promotori. In realtà sono i soliti cinquemila metri quadrati destinati a negozi, ristoranti e uffici.
L’idea che il tempo libero di ogni cittadino (o turista) si articoli ormai in tre sole possibili azioni – mangiare, bere e comprare – non riguarda solo Milano. A Genova, solo per fare un esempio, il progetto di rigenerazione urbana del Waterfront di Levante (il nome è proprio in inglese), a firma Renzo Piano, prevede che il vecchio Palasport diventi un grande centro commerciale su modello americano e infatti si chiamerà Waterfront Mall:28mila metri quadrati per 121 negozi, di cui 19 ristoranti e bar. Mentre la protesta degli studenti universitari dilaga in tutta Italia – dopo Milano, Torino, Cagliari, Pavia, Padova, Venezia, Bologna, Perugia, Firenze, Roma, Trento – e il tema del prezzo esorbitante degli affitti raggiunge livelli emergenziali, i sindaci restano testardamente convinti che solo negozi di lusso, ristoranti stellati o almeno famosi e bar di grido costituiscano i pilastri dell’attrattività della propria città. Da che cosa derivi questa certezza non è dato sapere. Ci si può riconoscere del provincialismo, poco uso di mondo, forse anche una certa subalternità culturale, ma in fondo non importa. Il tema semmai è provare a capire che cosa davvero renda attrattiva una città.
Chi per mestiere si occupa del tema tende a indicare un insieme di fattori. José Antonio Ondiviela, direttore dell’Osservatorio mondiale per le città attrattive (Worldwide Observatory for Attractive Cities), spiega che l’attrattività di ogni città si basa sulla combinazione di due fattori, uno razionale e l’altro emozionale. Parla di redditività (City Profitability), ovvero una scala oggettiva fatta di qualità della vita, opportunità di lavoro, servizi e ogni caratteristica più o meno misurabile. E parla di magnetismo (City Magnetism), un fattore soggettivo che ci fa dire “Mi piace”, “Mi trovo a mio agio”, “Mi ispira”, ma che soprattutto ci spiega perché ogni città è a suo modo unica: “Se umanizziamo il concetto di città, come ecosistema vivo, chiaramente la componente emotiva sarebbe l’anima della città, mentre la parte razionale sarebbero i suoi aspetti fisici, il suo corpo. Le città non sono solo luoghi e spazi in cui puoi vivere, sono entità viventi con componenti emotive, hanno un’anima. Questo concetto dell’anima può essere sentito, respirato e apprezzato in tutte le città, è ciò che le rende speciali. È parte del loro DNA, è una serie di elementi emotivi, intangibili e qualitativi che le caratterizza e le distingue. Ha a che fare con la loro atmosfera e, soprattutto, con le persone che le abitano e il loro stile di vita”.
È difficile immaginare che shopping mall, catene di ristoranti e franchising di bar identici in tutto il mondo possano rafforzare l’anima di una città. Tanto più che una nuova sensibilità si sta ormai diffondendo, coniugando le preoccupazioni per la crisi climatica e ambientale, la necessità di un mondo più sostenibile e il desiderio di una vita più libera e “facile”.
Recentemente anche il sito del quotidiano inglese The Guardian ha dato spazio a un video di successo in cui Alain de Botton, fondatore di The School of Life, espone il suo manifesto sull’attrattività urbana e indica le sei regole per rendere attrattive le città. Per essere considerata bella, una città deve avere in primo luogo il giusto equilibrio tra ordine e disordine; in sintesi, una complessità organizzata. Deve essere viva, le sue strade devono essere piene di gente e attività, altrimenti appare un luogo desolato. Dovrebbe poi apparire compatta, non tentacolare ed estesa all’infinito. La quarta regola parla del rapporto equilibrato tra orientamento e mistero; in pratica una proporzione tra strade grandi e piccole così da permettere di perdersi, ma anche ritrovarsi. Al quinto posto de Botton mette la scala, la dimensione, raccomandando di non esagerare con i grattacieli. La misura ideale degli edifici sarebbe di cinque piani fuori terra. Infine, la sesta e ultima regola, “rendere locale” (make it local); vale a dire, le città dovrebbero sviluppare i loro caratteri unici ed evitare l’omologazione.
Certo, Alain de Botton è un soggetto particolare. È uno scrittore e filosofo svizzero diventato cittadino britannico che si dedica a promuovere la filosofia come disciplina rilevante anche per la vita quotidiana. I suoi libri vendono milioni di copie e la sua Scuola di vita, con sede a Londra, è un percorso formativo speciale che ha come fine una vita completa, non la semplice istruzione.
Forse non è nemmeno possibile condensare in un elenco di poche regole operative la strategia per costruire luoghi attrattivi. Ma qualche riflessione un po’ più profonda sulla città, liberandosi dall’entusiasmo per le azioni speculative dei grandi fondi immobiliari, gli amministratori pubblici dovrebbero cominciare a farla. Magari riscoprendo il primato delle persone che la abitano e non dei manufatti che la costituiscono. Potrebbe essere d’aiuto rileggere Italo Calvino: “D’una città non godi le sette o le settantasette meraviglie, ma la risposta che dà a una tua domanda”.