ILOTOPIE SHOW
OMBRE E COLORI
SU FIUMI E LAGHI
'Città Invisibili', a Mantova, fu un evento straordinario. Ricordo ancora l'inquietudine nel comandante della Polizia Urbana davanti alla folla, centinaia e centinaia di spettatori, che accalcata in Piazza Sordello attendeva di entrare sul percorso dell'istallazione tra cortili e passaggi nel Palazzo Ducale. Il sorriso del sindaco, invece, era la chiara manifestazione della piena soddisfazione. Lungo il percorso, Nathalie danzava sulla corda tesa, come una fata uscita dal 'Sogno di una notte di mezza estate'. Sotto un portico, alcune danzatrici con lunghe gonne bianche si muovevano armoniosamente, mentre le loro ombre venivano proiettate sulle pareti antiche del palazzo. Più avanti, si incontrava un danzatore di Kathakali, figura demoniaca con volto di scimmia e movenze convulse, come se fosse colta da improvvisi attacchi di terrore.
Ma Mantova non fu solo 'Città Invisibili'.
La compagnia Ilotopie l'avevo incontrata al Festival di Aurillac. Una sera, un amico che organizzava eventi in Toscana mi disse: “Vai a vedere questi Ilotopie... poesia pura in movimento sull'acqua”. Bisognava prendere un autobus messo a disposizione dal festival, e fare qualche chilometro per arrivare a un grazioso laghetto dove si svolgeva la performance.
All'arrivo ci fornirono dei teli di plastica per sederci sul prato; c'era ancora luce e dovemmo aspettare più di un'ora prima dell'inizio. Intanto l'autobus continuava a fare la spola col centro città per accompagnare altri spettatori.
L'idea geniale di questa compagnia era il “trifoglio”. Uno strano natante a forma triangolare quasi interamente sommerso; emergevano solo i tre vertici sui quali erano posizionati tre riflettori che illuminavano l'attore, in piedi, al centro. Questi, manovrando tre pedali pilotava il “trifoglio”, facendolo andare diritto, a destra, a sinistra... Noi da terra vedevamo apparizioni surreali attraversare il lago, a pelo d’acqua: una bambinaia che spingeva una carrozzina; una donna in bicicletta; una bambina piccola su un lettone enorme; una 500 con una piccola roulotte; un signore con ombrello, uscito da un quadro di Magritte, con il cappello in fiamme; angeli alati su foglie di loto. Tutte queste immagini sullo sfondo dei più affascinanti scenari “son et lumière” della tradizione francese.
A fine spettacolo un attore “camminava” dentro una strana ruota, come quelle dei battelli a vapore dell'800; al posto delle pale c'erano delle porte. L'uomo le apriva chiamando nomi di donne... “Francoise?, Gabrielle? Sarah?...”.
Nel silenzio, nel buio, l'emozione scendeva negli animi di tutti gli spettatori..
Quando feci il mio primo giro a Mantova per scoprire spazi ed angoli, appena vidi i tre laghi formati dal Mincio che avvolgono la città il mio primo pensiero andò a loro: gli Ilotopie.
Il direttore della compagnia, Bruno Schnebelin e la responsabile dell'organizzazione vennero a trovarmi. Quando videro il lago la loro reazione immediata fu: “Ma questo posto è splendido... qui bisogna fare una istallazione ad hoc... sì la chiameremo “Acquaforte mantovana”... usiamo le nostre scenografie, ma costruiamo un racconto nuovo che metta in evidenza la bellezza del luogo”.
Quando la compagnia arrivò in città, io e Giulia, una funzionaria del Comune, li accogliemmo e li accompagnammo alla riva del lago. Era una bellissima giornata di giugno.
Gli attori e i tecnici parcheggiarono i mezzi e, felici e spontanei come bambini, corsero alla riva e si buttarono in acqua così come erano, in pantaloncini e magliette. Giocavano. La funzionaria che era con me li guardava, senza parole.
I preparativi durarono tre o quattro giorni. La gente passava sul lungolago, li vedeva, si incuriosiva, chiedeva. La sera dello spettacolo, sul prato davanti al lago c'erano almeno tre-quattromila persone. Le immagini surreali, le musiche, i fuochi, la magia del luogo stesso... La serata si concluse con un applauso finale travolgente che voleva dite una cosa soltanto: trionfo.
Ma con Ilotopie avevamo concordato anche una performance itinerante: “Les gens de couleur”. Mantova è molto bella ed è veramente un palcoscenico a 360 gradi. Bruno mi chiese di reclutare qualche ragazza e qualche ragazzo da inserire nella compagnia. Mi raccomandò di spiegare bene che gli attori sarebbero rimasti quasi completamente nudi; solo un costume a coprire il sesso; poi sarebbero stati verniciati da capo a piedi; e in queste condizioni avrebbero attraversato tutta la città in cerca di oggetti che avessero il loro stesso colore, fino a una postazione finale in cui sarebbero stati avvolti, piedi e gambe, da una colata di polistirolo espanso del loro stesso colore.
Certo, trovare delle donne che nella loro città fossero disposte a esibirsi a petto nudo, seppur colorato, mi sembrava una impresa di una certa difficoltà. Forse dovevo rivolgermi a una scuola di recitazione. Ne parlai con Giulia, e anzi proposi anche a lei di partecipare, per inserire nella sua giornata lavorativa, un guizzo di creatività. Mi guardò scuotendo la testa e mi disse una cosa a cui non avevo mai pensato e che mi fece riflettere su cosa significhi profondamente fare teatro: “No, scusami, non posso. Non sono abbastanza generosa...”. Non avevo mai pensato che fare spettacolo, fare teatro, richiedesse una consistente dose di generosità. Comunque lei mi aiutò e tra le sue conoscenze riuscì a trovare le quattro o cinque persone disposte a partecipare.
All'inizio il gruppo di “persone colorate” si disposero in strada in ordine cromatico, secondo la scala dell'arcobaleno. La gente, gli spettatori intorno, guardavano increduli.
Una vecchina mi si rivolse: “Ma ha visto?”. “È bello, no? con tutti questi colori?”. Non osò replicare. Quando il gruppo si mise in moto verso piazza delle Erbe, il pubblico cominciò a seguirli. Bruno mi chiamò e mi disse sottovoce: “Non devono seguirci... cerca di fermarli.”. Mi misi nel gruppo e cercai di convincere quelli vicino a me che non bisognava fare una processione. Inutilmente.
A questo punto Bruno fermò il gruppo e disse qualcosa ai performers. Al suo segnale ripartirono tutti di corsa, nel tentativo di seminare gli spettatori. Anche gli spettatori si misero a correre. La situazione era surreale. Un fotografo che li vide arrivare di corsa rimase interdetto, basito, a bocca aperta... e non scattò neanche una fotografia.
Corremmo per un bel pezzo. Quando arrivammo in uno slargo in cui c'era un giardino, sul Lungo rio, si buttarono tutti a terra, sull'erba. Anch'io mi sedetti su una panchina, a respirare, prima di tornare indietro a chiudere lo spettacolo.
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