AURILLAC
TEATRO DI STRADA
NEL MONDO
DEI VULCANI SPENTI
Aurillac è un posto “sperduto” nel Cantal, al centro della Francia, nella regione dei vulcani spenti. Organizzare lì un festival di teatro urbano è una bella provocazione.
Michel Crespin e Dominique Trichet, i fondatori avevano lanciato una sfida ai politici, e l'avevano vinta.
A Aurillac, prima del festival, ci andavano solo i turisti amanti delle lunghe passeggiate in collina, che poi si rifocillavano con il Cantal, uno dei tanti formaggi eccellenti della Francia.
Per arrivarci, da Milano, bisogna farsi una bella smacchinata di più di cinquecento chilometri.
La prima volta che ci ero andato, avevo deciso all'ultimo, come al solito (non sapevo quando avrei terminato i miei impegni agli esami di maturità). All'arrivo non c'era più un buco dove poter dormire.
Francesco Niccolini (caro amico, drammaturgo, regista, organizzatore che conosceva già l'ambiente) mi accompagnò alla Casa del Festival dove lavorava una ragazza che avrebbe potuto aiutarmi a trovare un alloggio. Me lo trovò dopo un paio di telefonate: era in un agriturismo a trenta chilometri dal paese. Meglio che dormire in macchiana...
Intanto che aspettavo, lì alla Casa del festival, una ragazza mi aveva riempito le mani con un paio di manciate di preservativi omaggio presi da un grosso cestone; era una campagna per la prevenzione dell'AIDS, o SIDA, come dicono loro; io lo avevo considerato un benvenuto di buon augurio.
Ho avuto anche l'occasione di assistere a un battibecco tra una matura organizzatrice e le sue giovani assistenti. Qualcuno aveva avanzato l'ipotesi di far pagare un contributo alle compagnie che arrivavano per ridurre un po' la bolgia di gruppi e di spettatori. La signora, che era nell'organizzazione del festival fin dalla prima edizione, minacciava le dimissioni.
Di compagnie ne arrivavano sei-settecento; di spettatori da ottantamila all'inizio a oltre centoventimila il sabato. La bolgia era tale che molti residenti, nella settimana del festival, preferivano andarsene dalla città e tornare a giochi conclusi.
Chiariamo che il festival di Aurillac dura solo quattro giorni: inizia di mercoledì, poi giovedi, venerdì... e al sabato il gran finale.
Ogni compagnia che arriva si presenta alla Casa del festival, e chiede spazio e tempo. Si raccolgono i loro nominativi e le indicazioni dello spettacolo, da inserire nel programma che viene aggiornato e ristampato tutti i giorni.
Viene loro assegnato uno spazio... in una piazza, in un cortile, in una strada, in un giardino... in un certo orario... viene consegnata una pianta della città con le indicazioni utili (dove attaccarsi per la corrente...).
Al sabato sera, dopo gli ultimi spettacoli, si festeggia tutti insieme fino a tardi.
Alla domenica ci si sveglia a mezzogiorno e poi, baci e abbracci, si parte per tornare a casa.
Se sei un addetto ai lavori, ti viene data una casella postale con una etichetta che spiega chi sei e cosa fai. Chiunque ti voglia contattare ti lascia un bigliettino con le sue coordinate, e se ti interessa vi incontrate.
Cosa si trova ad Aurillac? Tutto. Spettacolini per un solo spettatore fatti da un solo attore; ti fai la fila, paghi un piccolo contributo per uno spettacolino che si svolge dentro una specie di camera oscura... pieno di poesia e di ironia della durata di tre minuti. Ci sono trasformisti sui trampoli... fanfare con ottocento-mille musicisti... compagnie di danza urbana che salgono e scendono dai marciapiedi...
Ad Aurillac ho avuto l'occasione di incontrare Leo Bassi che teneva una specie di comizio rivoluzionario stando dentro un carrello della spesa appeso fuori da una finestra del municipio... la follia al potere!
Sempre sulla piazza del municipio ho visto un equilibrista, un funambolo, il famoso Ramon che, appoggiato su una piccola piattaforma sospesa a trenta metri da terra su un palo oscillante, si cimentava in evoluzioni che a me producevano vertigini e paura tali da indurmi a scappare il più in fretta posssibile, per evitare tremendi incubi notturni.
Il bello di Aurillac era che ogni mattina in un giardinetto vicino alla casa del festival ci si riuniva, organizzatori, artisti e operatori, per discutere di quello che avevamo visto il giorno prima. A condurre la conversazione era Michel Crespin, critico originalissimo... quello che il teatro urbano l'aveva inventato lui... quello che, con una splendida arroganza tutta francese, aveva mandato a quel paese i ministri della cultura, del turismo, dello spettacolo che non riuscivano a comprendere la forza e la bellezza dei suoi progetti.
Ricordo ancora una cena a Barcellona dove ha fatto ridere a crepapelle me e tutti i commensali presenti raccontando di quella volta che a Parigi al ministero aveva piantato lì il ministro che tremava come un budino all'idea di essere accusato di sprecare il sacro denaro del contribuente in una impresa fallimentare. Un istrione impareggiabile... l'essere più simile a Gargantua che io abbia mai incontrato.
Di spettacoli indimenticabili visti a Aurillac, ne ricordo due.
In uno c'era la struttura di uno chapiteau, ma senza tendone. Un cavo teso lungo almeno mezzo chilometro congiungeva il punto più alto della struttura con il tetto di un palazzo di una decina di piani. Gli attori scendevano lungo il cavo, appesi come i carrelli di una teleferica. Le braccia aperte sostenevano teli bianchi lunghi almeno dieci metri che sventolavano sempre più, man mano che la velocità degli attori scendendo, aumentava. Arrivati allo chapiteau scendevano dentro, fino alla pista, e qui c'era lo spettacolo di “nuovo circo”. Alla fine, un attore tutto vestito di bianco si arrampicava fino in cima, prendeva una bicicletta e con questa pedalando risaliva fino al tetto del palazzo.
Una immagine poeticissima, commovente. Io ho cominciato a seguirlo, da sotto, scattando foto e filmando, finchè a un certo punto ho sbagliato il gradino di un marciapiede, e sono volato lungo e disteso. Tutti hanno riso, e io per fortuna non ho fatto danni e non mi sono fatto del male.
Ma lo spettacolo più bello, aricolato, complesso che io abbia mai visto ad Aurillac è stato “Hello, Mr Jo”, della compagnia Jo Bithume. Il mio rimpianto è non essere riuscito a portarlo in Italia. Ne riparleremo un'altra volta.
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