LAVORO
A MANO
ARMATA

di Fabio Zanchi |

LA FRASE
“Il ricorso alla morale è solo per privilegiati.
Con me non è necessario”.

Eric Cantona è una bestia d’uomo alto 1,90 (1,89 per l’esattezza). Quando faceva il calciatore si era conquistato il soprannome di The King. Di lui si ricordano parecchie partite, giocate con la dovuta aggressività con i colori del Manchester United, ma soprattutto quella giornata del gennaio 1995 quando un tifoso del Crystal Palace, membro del Fronte Nazionale Britannico, alzando il braccio nel saluto nazista, ebbe la cattiva idea di dargli del francese bastardo.

Cantona, i cui nonni furono costretti a fuggire dalla Spagna ai tempi della guerra civile, scattò a modo suo, superò la barriera e stese quell’idiota con un poderoso calcio al petto. Dopo una squalifica, l’abbandono del calcio e tanti anni più tardi tutte le volte che viene invitato a rievocare quel gesto, poco sportivo ma assai atletico, l’ex giocatore ribadisce: “Avrei voluto colpirlo più forte”.

Abbandonati i campi da gioco, Eric Cantona fa l’attore. E lo fa con la stessa grinta, altrettanto efficace, che sfoderava contro gli avversari e che ha convinto un regista come Ken Loach a dedicargli un film, “Il mio amico Eric”. Con quella stessa grinta Cantona, inquadrato in primo piano, campeggia fin dall’apertura in una serie di sei puntate, su Netflix. Il titolo italiano, “Lavoro a mano armata”, in verità poco convincente, rimanda a certi film con Maurizio Merli (“Italia a mano armata”) di fine anni Settanta. E invece no. Più convincente e sottile il titolo originale: “Dérapages”, che invece ricorda certe sbandate che la vita, talvolta, impone. La trama evoca temi in un certo senso cari a Ken Loach.




Se uno alla soglia dei sessant’anni, dopo una vita passata a fare il capo del personale, si ritrova disoccupato, con il mutuo da pagare, costretto a lavori saltuari e umilianti, cosa può fare per rimettersi in carreggiata? La realtà vissuta da Alain Delambre/Cantona è dura, insopportabile per uno come lui. E non gli basta il sostegno di una moglie dolce e apparentemente rassegnata (impersonata dalla canadese Suzanne Clément, molto convincente). No. Il Cantona che è in Delambre sembra avere il sopravvento, quando prende a testate sul naso il capo reparto, che subito lo fa licenziare, o quando l’odiato genero lo provoca in modo antipatico: anche lui finirà con il naso rotto.




L’occasione della vita ad Alain arriverà in modo insperato, quando sarà chiamato a partecipare al ridimensionamento aziendale di una multinazionale. Di nuovo al posto adatto a uno come lui, apparentemente. Ben presto, la svolta: che qui non si racconta, perché è meglio godersela, puntata dopo puntata; i colpi di scena, compresa la pistola che giustifica in parte il titolo italiano, si alternano con notevole ritmo e Cantona assume, di volta in volta, i panni della vittima (finisce pure in carcere) e quelli dell’abile calcolatore. Tanto che uscirà dal carcere con una bella somma sparsa in vari paradisi fiscali. Riesce nell’impresa di perdere moglie, figlia avvocata, ma non la speranza o l’illusione di riconquistarle.

La serie è ispirata al libro “Cadres Noirs” di Pierre Lemaitre, autore anche dei dialoghi. La regia è di Ziad Doueiri. La possibilità che ci sia una seguito, come lascerebbe intendere la scena finale dell’ultima puntata, è affidata al gradimento del pubblico, che nello stile di Netflix può esprimere il proprio voto.



PERSONAGGI PRINCIPALI

Alain Delambre (Éric Cantona)

Nicole Delambre (Suzanne Clément)

Alexandre Dorfmann (Alex Lutz)

Charles Bresson (Gustave Kervern)

Lucie Delambre (Alice de Lencquesaing)

Mathilde Delambre (Louise Coldefy)

Gregory Ziegler (Nicolas Martinez)

Bertrand Lacoste (Xavier Robic)

Alain Karminsky (Yann Collette)

Jean-Marie Guéneau (Cyril Couton)

Clémentine Haddad (Eurydice El-Etr)

Maître Durand-Pernety (Stéphan Wojtowicz)

Major Morisset (Vincent Desagnat)

Boulon (Sacha Bourdo)

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