THE
LAST
KINGDOM
“Destiny is all”.
“I’m Uhtred, son of Uhtred … Destiny is all”. Fra queste due frasi, mantra del protagonista nei recap di inizio puntata, corrono - proprio nel senso che vanno via facili come l’acqua - le cinque stagioni di “The Last Kingdom”, dramma storico di successo prodotto da BBC2, presentato nel 2015 come la risposta britannica al “Trono di spade” e liberamente ambientato ai tempi di Alfredo il Grande, monarca cristianissimo e padre dell’Inghilterra unita già nel nono secolo dopo Cristo.
La Storia con la maiuscola attraversa la serie, ispirata alle ‘Cronache sassoni’ di Bernard Cornwell (HarperCollins in inglese, Longanesi in italiano) e girata in location grandiose e selvagge, con costumi suggestivi e un ritmo che conquista. Complotti di corte, ambizioni di re e battaglie-kolossal si consumano fra villaggi e pianure, in una carrellata di fatti piccoli e grandi di cavalieri e invasori, servi e contadini, in un accumulo crudo, senza filtri: vite ordinarie di villaggi ma tante carneficine, crocefissioni, decapitazioni e via ammazzando.
Sullo sfondo dei sanguinosi tableaux d’epoca il faro ingrandisce Uhtred, per l’appunto. Guerriero tormentato, mezzo sassone e mezzo danese, testardo e sempre libero a costo di pagare alti prezzi, vivrà una vita di grandi amori, di virili amicizie e di grandi infelicità, auto-inchiodato a una sua missione: riprendersi la contea di Bebbanburg, lassù nella Northumbria, al confine con gli Scozzesi, la terra di suo padre che gli è stata sottratta.
Uhtred (un eccellente Alexander Dreymon, poliglotta, esperto in arti marziali e cavaliere provetto) scopre bambino che il mondo intorno a lui è arbitrio e tregenda. Vede morire il genitore, nobiluomo sassone, per mano degli invasori pagani, i Danesi. Lo zio traditore Aelfric, ora che il campo è libero, si impossessa del titolo e di Bebbanburg e vorrebbe liberarsi pure del piccolo incomodo, che nel frattempo però è stato rapito dal nemico.
Adottato dal conte Ragnar l'Impavido (Peter Gantzler) che lo alleva come un figlio e compagno di giochi del suo rampollo legittimo e della piccola, intrepida Brida, altra baby prigioniera sassone, Uhtred cresce abile con le armi e sagace in cose militari. Un secondo tradimento, stavolta in casa pagana, lo lascia di nuovo orfano. L’eroe meticcio, ingiustamente accusato dell’assassinio di Ragnar senior e esiliato, tornerà fra i sassoni e si darà il compito di vendicare i padri uccisi riconquistando le terre avìte.
Le avventure di Uhtred - e con lui le cinque stagioni - sconfinano costantemente dal mondo dei Sassoni al mondo dei Danesi. Fedele a tradizioni e etiche degli uomini del Nord nonostante tre battesimi, la sua radice indigena lo metterà inevitabilmente in conflitto con la seconda infanzia. Lealtà e affetto si divideranno tra le famiglie che costruirà nel tempo e il duo Ragnar figlio/Brida (la vitalissima attrice austriaca Emily Cox), ormai sposi e schierati contro i sassoni.
Il nostro, giurata fedeltà a Alfredo il Grande sovrano del Wessex (sofferta interpretazione di David Dawson), ultimo regno che ancora resista all’invasore, non ne abbandonerà mai le ragioni, nonostante col re si scontri a ogni decisione importante mentre il fido Beocca, suo padre spirituale, prova a smussare gli angoli delle due personalità.
L’ambizione di Alfredo, unificare sotto il Wessex l’intero paese, è un fil-rouge affascinante. Indimenticabile una battuta del re, circondato da chierici e amanuensi ai quali ha affidato la cronaca di ogni singolo, anche piccolo evento: i pagani spariranno, non resterà traccia. Di noi si parlerà, perché tutto è scritto nei rotoli. Il suo posto - e i suoi obiettivi - saranno raccolti dal figlio Edoardo, più o meno rispettando la sequenza storica. 'Più o meno' perchè ‘The Last kingdom’ alterna una cura filologica dei particolari e delle ricostruzioni a varie licenze. La più rilevante riguarda proprio Uhtred, personaggio ispirato a un omonimo signore di Bamburgh e della Northumbria vissuto e governante… ma due secoli dopo, dal 1006 al 1016.
Come finirà l’epopea dell’eroe dal cuore diviso? La serie non lo racconta, ma chi ha proprio bisogno di un finale chiuso può cercare risposte nel sequel cinematografico uscito a aprile su Netflix, “Seven kings must die”, che cancellerà i dubbi. Intanto però vale la pena godersi cinque stagioni di livello, che procedono in crescendo, ognuna con colpo di scena nel finale.
A essere onesti, ci sono frangenti in cui la ferocia e ripetitività delle stragi possono annoiare. E può annoiare - anche se la serie è nel complesso equilibrata e non schiava dei manicheismi - una tentazione macchiettistica nel ritrarre gli uomini del Nord tutti smorfie, Valhalla, ubriacature e barbone trecciolute. Ma tirando le somme ‘The Last Kingdom’ mostra una architettura di grande qualità, avvincente quanto un Dungeon and Dragons. Anche se, a differenza dei plot fantasy, punta su una galleria di personaggi psicologicamente credibili invece che affidarsi a draghi, incantesimi e magie.