FANTASTICA
SIGNORA
MEISEL
Termina con una fragorosa risata l’ultima puntata della quinta stagione di 'La Fantastica Signora Meisel' o de 'La Meravigliosa Signora Meisel', a seconda di come gli gira al Web. Risata che rintrona dalla East alla west Coast; l’intensità di una complicità, quella di un’amicizia di lunghissima data, tra due amiche che si ritrovano davanti alla tele per guardare lo stesso programma TV (Jeopardy, un quiz campione di ascolti in onda dal lontanissimo 1964, una specie di Lascia senza Raddoppia al cubo), una dopo aver cenato da sola, seduta tutta compassata nel suo elegante studiolo, l’altra stravaccata sul divano con accanto una cofana di popcorn, come si conviene al suo stile.
L’ultima scena è datata 2005. Facendo un paio di conti, direi che sono passati quasi cinquant’anni da quelli raccontati nella prima stagione. Decadi che sembrano averle appena sfiorate, loro due, a parte il prolasso del mento e qualche capello canuto. Il tempo che scorre è raccontato soprattutto con i fantastici vestiti della bravissima costumista, Donna Zakoska. Non mi sono messa lì a contarli, ma se considerate che le puntate sono 43 e che la protagonista cambia almeno una decina di completi a puntata, da ex addetta ai lavori le darei l’Oscar alla carriera. E non solo per il suo senso cromatico. Pensandoci bene, standing ovation anche alle scenografie, curatissime, ricercate e colorate come in uno scatto di David La Chapelle. Metto le mani avanti, come sempre: alla fine di questo pezzo potrei aver usato un buon numero di superlativi, ma secondo me la serie se li merita. Tutti. Anche e soprattutto per i dialoghi: velocissimi, fulminanti, un trionfo di comicità yiddish, quella che Woody Allen ci ha fatto conoscere e imparare ad amare, qui alla sua massima potenza. E non solo quelli di Midge. Ogni personaggio dovrebbe avere il suo show.
Dai suoi altalenanti inizi, sul finale, è ovvio che Mrs Meisel ce l’ha fatta e alla grande. Vive, sola con le foto dei suoi successi e ricordi, in un faraonico appartamento nelle Dakota Towers (dove fu assassinato John Lennon) e dove, ci informa Midge, ancora vive Yoko Ono, che pare abbia il suo bel peso nelle decisioni condominiali. L’altra, Susie, la ritroviamo in una lussureggiante villona dall’arredo esoticamente eclettico in quel di Los Angeles. Tutte e due sono arrivate al Successo con la S maiuscola. Nella nona puntata, finale di serie, devo dire che i prequel e sequel temporali della sceneggiatura mi hanno procurato la labirintite, ma io, è risaputo, ho problemi di concentrazione.
La storia, in breve è tutta in quanto segue, ma credetemi che in quel “tutta” c’è di tutto e di più. New York 1958, Maggie è una sposina carina e un po’ frivola, alla quale casca il mondo addosso quando scopre che il neo maritino le ha messo le classiche corna con la segretaria. Lungi dal mettersi a piagnucolare, decide di fargliela pagare, e alla faccia del riserbo e della privacy, mette in piazza il suo doloroso j'accuse, accaparrandosi la scena e il microfono in un fumoso locale del Village, dove si rivela un’affabulatrice sarcastica, con una verve a raffica, che non fa sconti a nessuno, men che mai al suo dolore. Tornata a vivere con mammà e papà, scoprirà che sputtanarlo pubblicamente e alla grande è una gran bella soddisfazione. Per quattro stagioni la storia si dipana sul tema di cui sopra, tra intrighi e ingaggi, applausi e licenziamenti, flirt e ritorni di fiamma con il marito, che di sfighe nel frattempo ne ha avute anche lui, ma che è un simpatico e bravo cristo, tutto sommato. Non mancano i cattivoni: infide primedonne senza scrupoli decise a farle le scarpe, un paio di ricattatori della mafia russa, degli imperscrutabili biscazzieri cinesi… e qualche leggenda: il grande Lenny Bruce, mentore e love interest, e persino un matrimonio mancato con Philip Roth, sì, lui, quello del Lamento di Portnoy e di Pastorale Americana, liquidato da Midge perché pare sia una pizza noiosa, che proprio non la fa ridere. Come darle torto.
Una storia che definire al femminile sarebbe riduttivo, nonostante l’intento e la bravura della sceneggiatrice di lungo corso, Amy Sherman maritata in Paladino, che ha la penna più affilata di una spadaccina. Una storia che fa brillare le due protagoniste: quella deliziosa peperina di Rachel Brosnahan nella parte di Miriam Meisel detta Midge, ex casalinga inquieta, improvvisatasi standing comedian (immaginate Sabina Guzzanti, Lella Costa, Francesca Reggiani e Teresa Mannino, che raccontano i fattacci loro, con il turbo) e quel meraviglioso botolo che è Alex Borstein, l’inizialmente improvvisata, la ripetutamente sfigata, la compulsivamente sboccata Susie Meyerson, sua tracagnotta, grintosissima manager. Loro sono stratosferiche, ma ogni personaggio femminile lo è: partiamo da Marin Hinkle, nel ruolo di Rose Weissman, mamma di Midge, figura di donna del suo tempo, apparentemente svampita, affabile, sempre impeccabile, pericolosamente e deliziosamente paraninfa; poi c’è la suocera, una bionda e corpulenta, stereotipata nella sua volgarità, Shirley Meisel, interpretata dalla superlativa Caroline Aaron. Senza dimenticare Matilda Szydagis, nel ruolo di Zelda: fedelissima, indispensabile, insostituibile colf tuttofare che continuerà a prendersi cura dei membri di quella squinternata, adorabile, famiglia d’adozione, i Weissman, resi incapaci proprio dalla sua dedizione.
E poi ci sono gli uomini. L’unico loffio forse è proprio Michael Zegen, il fedifrago Joel, a.k.a Mr. Meisel, che Midge amerà sempre e che si riscatterà con un atto da galantuomo. Anche volendo non potrei spoilerare. Mica ho capito che fine gli hanno fatto fare gli sceneggiatori. Sono indecisa sullo scegliere chi amo di più, se Kevin Pollak nel ruolo del suocero Moishe Meisel, avido imprenditore di Seventh Avenue, o il superlativo Tony Shaulhoub nel ruolo del padre di Midge, giornalista del Village Voice, convinto della supremazia genetica della stirpe maschile dei Weissman. Dovrà ricredersi, seppur in ritardo, quando riconoscerà le eccezionali doti di Midge, e la genialità della nipotina Ester che, assieme al piccolo Ethan, vivono dai nonni, mentre Midge cerca di costruirsi una vita.
Diciamo che come madre Mrs Meisel, specie per gli standard ebrei, del resto non dissimili dai nostri, è un pochino sui generis. E se ne rende assolutamente conto senza farsi sconti. Quando, con un golpe, si assicura quattro minuti di prime time nello show condotto da quel gran narciso maschilista di Gordon, interpretato da un fighissimo Reid Scott, non si fa specie di confessare nel suo monologo: “Ricordatemi come si chiamano i miei due figli? In questo momento proprio non mi vengono in mente”.
Chiudo con le parole di Midge: