ROUGH
DIAMONDS
LA FRASE – “Un conto è l’amicizia, un altro conto gli affari”.
È un incrocio assai insidioso quello dove il racconto fa incontrare il mondo degli affari, quello della malavita e quello ebraico dei chassidim. Ne va della credibilità della storia in sé, che può scivolare nel déjà vu del genere poliziesco, oppure offrire alimento ai pregiudizi religiosi. Il rischio è alto. Se però il timone è nelle mani di collaudati professionisti il pericolo è ridotto al minimo.
È il caso di questa serie di otto episodi uscita su Netflix, ambientata nel distretto ebraico di Anversa. Gli autori sono gli israeliani Rotem Shamir e Yuval Yefet, il cui nome è legato a serie di gran successo come Fauda. Al solito, il titolo italiano, “La famiglia dei diamanti”, ha meno appeal di quello originale: “Rough Diamonds”, diamanti grezzi. E proprio intorno ai diamanti non lavorati, preziosissimi perché non tracciabili in alcun modo al contrario del denaro, ruota la storia. Protagonista, una famiglia di ebrei ultraortodossi, da generazioni commercianti di diamanti.
Il racconto parte dal suicidio del figlio minore della famiglia Wolfson. Ai funerali si presenta Noah, il fratello più grande, ripudiato da quando ha voltato le spalle alla religione. Si scoprirà in seguito che a Londra, dove vive con il figlio rimasto senza madre, fa parte di una banda criminale. Sorpresa tra le tante che riserva questa movimentata serie, a capo della gang c’è la suocera, che non ha mollato Noah neppure quando è rimasto vedovo.
A lui toccherà darsi da fare con ogni mezzo per salvare dal collasso economico la famiglia d’origine, benché contrastato dal ruvido patriarca che lo ha ripudiato. Nel difficile percorso gliene capitano di tutti i colori: rischia grosso con una banda di albanesi con cui il fratello si era indebitato fino a togliersi la vita; si scontra con un altro fratello, il cui sport preferito è inguaiare vieppiù l’azienda familiare; cerca di riaprire l’antico rapporto d’amore con la cognata Sara rimasta senza marito. Il tutto facendo i conti con l’esplicito rifiuto dell’ambiente chassidico, chiuso e programmaticamente impervio a qualsiasi mediazione con chi, come lui, abbia abbandonato la religione. L’unica che darà una mano a Noah è la sorella Adina, ottimamente interpretata da Ini Massez, dotata di un più che discreto senso pratico, al punto che ammetterà: “A noi ebrei viene chiesto di rendere kosher ciò che non è kosher”.
Data la dimestichezza degli autori con il genere crime d’azione, gli ingredienti ci sono tutti e vengono gestiti con sufficiente credibilità. Il vertice viene però toccato nella descrizione dei rituali, dei rapporti, delle dinamiche propri di una famiglia e di una comunità in cui le radici identitarie sono assai marcate e vincolanti. Una delle caratteristiche di Netflix, d’altra parte, è proprio l’attenzione con cui in questi anni è riuscita a scandagliare l’ortodossia ebraica. Basti pensare a Shtisel o a Unorthodox. Oppure, per altri versi, a Fauda.
Anche la Famiglia dei diamanti si presenta con una attenzione vera a queste realtà. Un risultato che è frutto di uno straordinario lavoro che ha determinato anche la scelta del cast. Il patriarca della famiglia è un noto cantore ebraico; la serie è stata recitata in yiddish e fiammingo, con un po’ di inglese e di francese, lo stesso mix di lingue che gli ebrei di Anversa parlano da generazioni; per non sbagliare, i due autori hanno consultato una squadra di consulenti e di traduttori sia per scrivere e dirigere i dialoghi, sia per rendere più corretta l’ambientazione chassidica. Uno scrupolo che non ha appesantito il racconto, anzi.
Il risultato è un’ambientazione più che credibile, tanto che il pubblico e la stampa più vicine alla tradizione ebraica hanno mostrato di apprezzare. Ma anche il resto del mondo, se è vero, come pare, che Netflix starebbe pensando a una seconda serie, con lo stesso cast.