La Freisa è un vino che, a mio modesto ed empirico parere, sta al Chierese come la Bonarda sta all'Oltrepo Pavese, nostro ex buen retiro, dove per dieci anni ne abbiamo fatto un discreto consumo. Due vini non necessariamente solo frizzantini, con una reputazione di buon comando; due rossi ugualmente economici e allegri, piacevoli accompagnatori di robusti piatti indigeni, diversi nella tradizione, ma ugualmente belli sostanziosi nella sostanza.
Allertati e allettati dalla dritta di un’amica, in una soleggiata domenica di un Maggio che sembra già Luglio, ci siamo concessi una sibaritica uscita fuori porta. Attivato il sempre fedele Google Maps, che - spero concorderete - ha una sua fantasiosa volontà incurante della logica, ci siamo fatti un piacevole quanto farraginoso giro in collina; forse la via più breve se non la più veloce, ma altrettanto sicuramente percorso molto fascinoso che ha allungato i tempi di percorrenza di quei pochi, solo una ventina, di chilometri.
Da entusiasta neofita torinese, ogni volta m’incanto davanti alla meraviglia di questi boschi a pochi chilometri dal centro città, che rendono più che piacevole arrivare là dove non c’eravamo spinti: Chieri, detta anche la città delle Cento Torri. Tanto vale confessarlo subito, non ne abbiamo vista nemmeno una, di torri. Probabilmente non torreggiano. Ma i suoi famosi croccanti grissini rubatà (arrotolati), quelli almeno, possiamo certificare che sono una delizia.
“Non puoi perderti 'Si Va di Freisa in Freisa'“, mi aveva raccomandato un’amica giramondo, che ama questo territorio d’adozione quanto le native Marche e che, sebbene astemia, inspiegabilmente ha un’ammirazione per il Freisa. Un evento ricorrente, alla sua 12ma edizione, che in questo 2022 si è presentato in pompa magna, dopo che la regione Piemonte l’ha ufficialmente dichiarato “l’anno del Freisa". Una tre giorni iniziata venerdì 13, con un convegno nella spartana Sala Conceria su un tema di attualità: “Dal cambiamento climatico all’ecologia integrale. Biodiversità, enoturismo e inclusione: la trasversale bellezza di un territorio sostenibile”. Un titolo che presuppone uno svolgimento al limite dell’enciclopedico, per la sua vastità. Sabato 14 il calendario è proseguito ancora più fitto di appuntamenti, dagli aperitivi alle degustazioni guidate agli abbinamenti gourmet con eccellenze gastronomiche del territorio, in collaborazione con i Maestri del Gusto di Torino e con alcuni importanti chef chieresi. Domenica 15 giornata conclusiva e perciò, per quello che ci riguarda, ora o mai più, almeno per quest’anno.
Mentre attendevamo dei tajerin non proprio solerti, a un certo punto ci siamo detti: "Ma se sfatassimo il luogo comune di un vinello senza pretese e andassimo alla ricerca della Freisa che non ti aspetti? Ma se cercassimo l'eccellenza"?
Chiedete e vi sarà dato, diceva Qualcuno. E
così invariabilmente è stato.
Reclutato il fedele compagno
di vita e di avventure, nonché fotografo ufficiale del
nostro binomio, pagato l’obolo di €10 cadauno - che ci
dava diritto a 5 tagliandi degustazione nella
Freisa Lounge (nome un tantino
altisonante per una semplice tensostruttura, se volete
il mio parere), più un borsino bordeaux corredato da un
bicchiere che, se lo rendevi, ti ridavano due euro,
abbiamo iniziato il nostro giro. Com’è nella nostra
natura ci siamo guardati bene dal seguire, e quanto meno
guardare, il programma giornaliero, per andare come
nostro solito, alla cieca.
Ciononostante, mi pregio di dire, la fortuna aiuta gli audaci, e abbiamo raccolto qualche storiellina interessante. Lascio a voi giudicare
Ma prima di iniziare, due parole sul vitigno, che è autoctono, rustico e perfetto per questa zona dove, specie in estate, piove poco; diffuso nel Chierese, nel Monferrato, nell’Astigiano fino alla Langa Cuneese, il Freisa ha una storia antica che risale al Cinquecento quando, come ci ricorderà uno degli intervistati, un vino pregiato di nome Fresearum risulta inserito in alcuni tariffari datati 1517 della dogana del comune di Pancalieri, in provincia di Torino, dove veniva estimata il doppio delle altre uve: “Pro qualibet carrata Fraesarum solidum unum, denario sex”.
Il freisa di oggi, quello più commerciale, è sinonimo di vino giovane, piacevolmente fresco, che con il tempo può assumere toni più maturi, di un bel colore rosso rubino, fruttato al palato, floreale al corpo. “Migliora invecchiando - scriveva il tecnico enologo Armando Strucchi nel 1890 - e frequentemente arriva all’onore del vino da dessert, come il Nebbiolo, al quale per vari caratteri assomiglia”. Ne condivide infatti l’85% del patrimonio genetico. Secondo il CNR di Torino, la “mutazione” freisa (uso un termine probabilmente molto improprio per dare l’idea), nasce dall’ incrocio spontaneo tra il Nebbiolo e un altro genitore scomparso e ancora sconosciuto.
Alla domanda ”avete qualcosa di speciale?” i due ragazzi scamiciati e accaldati al tavolo del DI.S.A.F.A si sono affrettati a mostrarmi, in tandem, le loro due etichette diciamo top de gamme, risultato di progetti sperimentali del Dipartimento di Scienze Agrarie, Forestali e Alimentari dell’Università di Torino. E tutto quanto è sperimentale, a mio avviso, è sempre degno di nota. E d’incoraggiamento. “La Borbogliosa. In purezza” mi ha indicato il primo dei due, orgoglioso di questa sua Borbogliosa, che pure ha un prezzo modico, solo €7, ma è un DOC superiore, nato e cresciuto in città, su una delle sue tante colline. Nel 2015 aveva ottenuto 90 punti nella guida Torino DOC - vini che raccontano il territorio. Onore al merito. Novanta sono tanti.
Accanto, in una simpatica bottiglia tarchiatotta che si sposa bene con l’etichetta disegnata al tratto, il Cinghialot. Che mi è stato subito simpatico, perché a me piacciono le storie di riscatto e di recupero, come questa. Una storia che sa di ricordi e di famiglia, raccontata con amore da Gabriele Mattalia, il pronipote che ha ridato vita ai piccoli appezzamenti dimessi e dismessi da nonni e bisnonni; il più vecchio ha 110 anni, il più grande non supera i 2000mq, tutti insieme non arrivano all’ettaro.
Procedo lungo il filare dei tavoli, con ordine, perché così si fa anche quando si va a naso.
E le cose si mettono bene. C’è questa Marchesina, che si presenta con una veste nobile; un 100% freisa spumantizzato con metodo classico, dopo un affinamento per 24 mesi sui lieviti, da cui quel bel colore corallo delicato. “Si accompagna bene - mi spiega il rampollo Rossotto della Tenuta La Serra, tirando ulteriore acqua al proprio mulino - alla cucina tradizionale del nostro neonato agriturismo”, una cascina del XVIII secolo, dove il chiaretto di freisa aggiunge un certo non so che, persino al loro vitel tonné.
Per rimanere in tema di spumanti - non mi piacciono i rossi frizzanti, su questo differisco dal beneamato, ma datemi delle bollicine e potete contare sul mio entusiasmo a prescindere - l’occhio si posa su una bottiglia di un color rosato brillante, una Freisa D’Asti DOC 500 spumantizzata extra dry; etichetta che compie sette anni, nata per celebrare il compleanno di questo storico vitigno, vecchio di cinque secoli. Vino che, dice il “bugiardino”, ha profumi e sapori di frutti a bacca rossa, come il lampone e la ciliegia. Lo so, la ciliegia non è una bacca; ma sapete come sono fatti i sommelier, sono dei poeti.
L’ultimo tavolo sulla destra colpisce perché ha un che di regale. Si capisce dalla targa di Slow Food: Maestro del Gusto, Azienda Vinicola di Balbiano. Il signore dietro il banco ha un ciuffetto di capelli centrato e solitario sul cucuzzolo glabro, che lo fa assomigliare un pochino ad Arturo Bracchetti; quel genere di viso anche, ma più serio. Noto l’espressione sospettosa e guardinga di chi si accorge subito di avere davanti una che di vini ne capisce poco o niente.
Impressione subito confermata dalla mia prima ingenua domanda “Avete la freisa che non ti aspetti?”. La sua espressione sofferta mi è sembrato si accentuasse. Come a dire “Davvero lei non sa chi siamo noi?”. E ha indicato con sussiegoso distacco un’elegante bottiglia di Superiore Barbarossa, un Freisa di Chieri, che è una denominazione di origine protetta, mi ero dimenticata di dirlo. Vino strutturato, importante, con, e ripeto a pappagallo, “profumi terziari dati dai sei mesi d’invecchiamento in un tonneau di rovere francese e da un lungo affinamento in bottiglia”. Un gusto ricco, “muscoloso”. Adatto a secondi piatti succulenti, carni rosse, stracotti, brasati, insomma quelli che ci piacciono, per cui ne abbiamo comprato subito una bottiglia a €12. Ma, si raccomandano: servire a temperatura ambiente e stappare un’ora prima. O decantare. Me lo devo ricordare.
L’occhio, a quel punto, mi è caduto su un nome sinonimo di nobile garanzia: Villa della Regina, altra Freisa Di Chieri. Un solo ettaro di vitigno veramente regale, nella villa che domina la città, lato Gran Madre, voluta dal principe Cardinale Maurizio di Savoia, nei primi anni del 1600. “Il frizzantino, all’epoca, era quanto di più vicino allo champagne”. Anche se da profana faccio fatica a capire l’analogia, fosse solo per il colore, non mi cimento in domande imbarazzanti che potrebbero rovinare il bel rapporto appena conquistato. Ormai gratificato dal mio interesse, il signore declama con entusiasmo: “In mano ai Francesi, questo vino sarebbe famoso nel mondo. Sa come sono fatti i Francesi, ci sanno fare con il marketing dei vini“. Comunque, quando va alla grande, Villa della Regina ha produzione di massimo 4250 bottiglie, tutte numerate. Noi abbiamo assaggiato la 953 di una produzione di appena 3866, targata anno 2017, annata speciale, mi fa notare. L’etichetta ha un costo importante: € 22. “Vino strutturato ma elegante, tannini presenti ma morbidi, sentori speziati per primi piatti ricchi e saporosi”, dice il sito web. E penso subito ai Plin, quei tipici, minuscoli, goduriosi raviolini piemontesi, che richiedevano una manualità precisa e perfetta; poi il cielo ha inventato le raviolatrici e la vita è diventata più facile.
Mentre torniamo sui nostri passi, incerti per aver fatto buon uso dei rispettivi tagliandi, c’incuriosisce una targa, che attribuisce la paternità di socio fondatore di Freisa Associazione Più Freisa alla Cascina Grilli di Castelnuovo don Bosco; dalla quale si evince che da queste parti al DNA della Freisa ci tengono, che quei 1000 ettari di terreni vitati non vengono dati per scontati, grazie anche al patrocinio tecnico-scientifico della sopracitata facoltà di Agraria dell’Università di Torino. E così, casualmente direi, chiudiamo il cerchio di questo nostro estemporaneo tributo ad una uva che ha ancora molto da offrire, e lo facciamo con un’ultima eccellenza, il pluridecorato Arvelé, che poi in dialetto significa Rivelazione.
Due anni in barrique, la provenienza da un vigneto vecchio di 70 anni, una resa bassissima per attendere la maturazione delle uve quasi al limite dell’appassimento, una produzione limitata a 5000 bottiglie, 14,5% gradi: “Una Freisa longeva e morbida, con sentori di prugna che si legano al sottofondo speziato”. Quindici euro a bottiglia per questo vino importante che, come ci racconta con orgoglioso rammarico Paolo Vergnano, è stato ripetutamente premiato con Due Bicchieri dal Gambero Rosso, senza riuscire ancora a conquistare l’ambito unico bicchiere, ma che ha ottenuto nel frattempo un paio di medaglie d’oro (dalla Guide des Vins International 2018 e dal CWSA nel 2016), 90 punti dai Migliori Vini Italiani del 2017, 87 punti da Veronelli nel 2021. Chiudiamo in bellezza.
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