5 agosto 2023

RENATA E CARLO
VOCI FATATE
NEL PARADISO
DELLA LIRICA

di VITTORIO TESTA


(Carlo Bergonzi e Renata Tebaldi - foto dal museo Tebaldi)=


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Renata Tebaldi e Carlo Bergonzi: due Semidei dalla voce fatata e fatale. Un’infanzia e un’adolescenza difficili, tribolazioni che sembravano insormontabili: forse vinte dalla "chiamata" del destino, dove tutto stava già scritto? E il libero arbitrio? I Greci misero d’accordo un po’ tutti con il ruolo del Daimon, sul quale ha poi prodotto elaborazioni affascinanti lo psichiatra junghiano Hillman: secondo questa teoria, ciascuno di noi nasce al mondo come una ghianda che non potrà non diventare quercia (attenzione: con la Q, non G). Ma dipenderà anche da noi, dalle scelte che faremo o - per complicare ulteriormente un po’ le cose - dalle decisioni che ci illuderemo di prendere grazie alla nostra ferma volontà. Quale tipo di quercia saremo: robusta o gracile, felice o infelice, longeva o precaria, fertile o sterile? Qui il fattore-Daimon sarà decisivo. Potremmo dire che noi siamo in grado di esercitare "il libero arbitrio"? Forse sì ma "in libertà provvisoria e vigilata" dal Daimon.


(La famiglia Bergonzi con la Tebaldi)


Prendiamo la ribellione del bambino Carlo Bergonzi, a 10 anni appena già scarriolante quintali di carbone nel caseificio di Vidalenzo, frazione di Polesine Parmense. Quel giorno Carletto non la smetteva di canticchiare sottovoce ma ostinatamente l' "Allarmi", il finale della Pira, il Do acuto che lo tormentava, producendo una specie di muezzinica ripetizione, simile al greve rombare di una squadriglia di bombi azzuffantisi in un roseto. Di solito, in quei torridi pomeriggi "appiccicosi di caucciù" (grande Paolo Conte) il proprietario casaro se ne stava a pisolare nel fresco della casa dai muri spessi come quelli di un bunker. Invece, giusto quel giorno e a quell’ora si trovò nella posizione ideale per captare lo strazio sonoro prodotto dal garzòn Carletto, causandogli un accesso di nervosismo che lo fece esplodere nel famoso aut aut - "Garzòn! Qui o si canta o si lavora" - in genere dal sapore semi-scherzoso ma che invece, tramutato in un Dies Irae, spalancò a Carlo un futuro di ignota e sconfinata ampiezza, nella quale il ragazzino carboniforo cominciò a percorrere inconsciamente la svolta della sua vita, il copione della sua stupefacente avventura umana e artistica. Sia dunque doppiamente beatificato il padron Casaro Allegri, meritevole della nostra gratitudine eterna per aver cacciato Carlo da un caseificio verso quel deificio che è il palcoscenico.


(Carlo Bergonzi)


Lei, cara Renata, ha ispirato la sua custode Giovanna Colombo a dedicare un giorno nel ricordo del suo compagno di studi e poi di palcoscenico Carlo Bergonzi - da lei chiamato 'Carlotto' fin da quando erano entrambi studenti al Conservatorio di Parma. I due fuoriclasse cantarono insieme la prima volta a Catania, nel 1947: una Bohème nella quale Carlo però interpretava Marcello, baritono malsopportato per quattro anni, fino al gennaio del 1951: quando Bergonzi dopo mesi di reclusione clandestina riappare ma con voce di tenore da sé stesso mutata. Esordio a Bari nell’Andrea Chenier, scritturato subito dalla Rai (50 mila lire al mese) per una Giovanna d’Arco, insieme alla Tebaldi, a Milano nell’ambito delle celebrazioni del Cinquantenario verdiano. Da lì comincia un sodalizio artistico che li porterà a mietere successi in tutto il mondo.

Carlo metterà a dimora le Rose Tebaldi nell’aiuola del monumento a Verdi. "La loro amicizia era così intensa da far sì che si sentissero sempre a loro agio", dicono Maurizio e Marco Bergonzi, ricordando un ultimo dell’anno ai Due Foscari: al termine dei brindisi Bergonzi e la Tebaldi sussurrarono un duetto della Bohème. "La taverna si zittì ed è indimenticabile l’emozione che coinvolse tutti al sentire due artisti inarrivabili cantare dolcemente mentre albeggiava", ricorda la moglie, Adele Aimi, novantaduenne di lucidissima intelligenza ed eloquio.


(Renata Tebaldi)


Eccoci dunque nel museo Tebaldi, luogo di magìe, che nelle sale popolate dagli splendidi costumi e dalle gigantografie fanno rivivere emozioni da pelle d’oca. Certo Bergonzi non ha avuto la fortuna d’aver dedicata, non dico una simile magione dei ricordi: ma niente di più che l’intitolazione della piazzetta antistante l’albergo ristorante chiuso da anni, "I due Foscari". L’allegoria bergonziana più emozionante la si può cogliere nel tardo pomeriggio: se andate in piazza Verdi al tramonto lo spettacolo è grandioso. Il sole se ne va giù, nel tratto tra la Rocca e gli alberi della montagnola, l’antica ghiacciaia pubblica, irradiando la sua luce dapprima giallo-vermiglia sulle spalle del Verdi assiso come in posa d’essere lì lì per alzarsi: e sull’angolo di Piazza Verdi brilla in alto la targhetta toponomastica che vi avvisa che questa è Piazza Carlo Bergonzi-tenore. Specifica, questa della professione, che per noi melomani suona quasi come un eccesso irridente.

Ma qui nel giro di pochi anni, di questo andazzo, di prevalente crassa ignoranza e menefreghistica volgarità, c’è da temere che si dovrà mettere a corredo un’umiliante ultima sottoscritta a "Tenore": che minchia faceva un Tenore? Cantava? E allora mettiamoci sotto "Cantante"! No? Per fortuna la sapienza del caso ha collocato il grande Carlo, il "figlio" più devoto e fedele, in posizione tale da essersi guadagnato la Gloria divina alla destra del Padre a lui gratissimo per aver cantato in modo da far piangere di lieta, spirituale gioia anche i sassi.











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