Roma sarà pure la città Eterna, ma questa eternità non è una linea retta, è fatta di mille cesure, fratture, tempi che si spezzettano. Se guardiamo all’epoca moderna il mutamento più grande è avvenuto certamente il 20 settembre del 1870 (centocinquant’anni fa tondi tondi lo scorso anno, ma anniversario quasi dimenticato perché caduto in un brutto momento per la memoria) quando ormai fuori tempo massimo il potere temporale dei papi si chiuse con qualche salva di cannone e le penne dei bersaglieri.
Si concludeva un’era lunghissima, l’istituzione pontificia aveva tenuto in mano le chiavi della città per millecentoventi anni, un tempo paragonabile all’epoca romana classica, da Romolo e Remo alla caduta dell’Impero d’Occidente. Di quella cesura e di quello che accadde nei decenni successivi proverò a raccontare usando le immagini straordinarie dell’Archivio Alinari.
E allora cominciamo da Porta Pia, dalla battaglia che non doveva esserci. Papa Mastai Ferretti aveva raccomandato una resistenza solo simbolica. I generali non gli diedero retta e furono cannonate e morti, quasi settanta (48 tra gli italiani e 20 tra i papalini). Di quella battaglia non restano immagini, ci sono le testimonianze vere del prima e del dopo. Ma come, direte, sui libri delle medie c’era la foto dei bersaglieri che sparano e corrono davanti alla Porta… Ebbene quella foto era un falso, fatto persino nel posto sbagliato, la scattò Gioacchino Altobelli (stampa all’albumina da negativo al collodio umido, per chi ama i dettagli).
I bersaglieri li aveva fatti mettere in posa il generale Cadorna e quell’immagine divenne un santino. Quelle vere nell’archivio Alinari ci mostrano un esercito vincitore ma non esultante, coi suoi accampamenti nei prati di villa Torlonia sulla Nomentana, con le tende alzate attorno al laghetto, lo stesso sotto il quale per timore dei bombardamenti il Duce si fece costruire un bunker domestico.
No, non c’è nulla di epico in questi ragazzi che si fanno immortalare senza le giubbe, stanchi e forse accaldati (Roma a fine settembre sa essere ancora afosa, specie per chi viaggia con pesanti pantaloni di fustagno, con magliette e camicioni ruvidi e pesanti.
La vulgata vuole che la Roma papalina fosse una piccola città provinciale. Sul provinciale d’accordo, sul piccola un po’ meno: Roma aveva nel 1871 212mila abitanti, sostanzialmente lo stesso numero di Torino (che era stata capitale sabauda da sempre), Milano ne aveva meno di 250 mila, Firenze capitale italiana dall’Unità aveva visto crescere i suoi abitanti tra il 1861 e il 1871 da 150 a 200mila.
Solo Napoli era davvero una grande città con mezzo milione di abitanti. In più Roma non era una città immobile come potremmo credere e la sua boccata di modernità stava arrivando per mano di gente come il cardinale De Merode e dalla speculazione edilizia. Oggetto delle trasformazioni degli anni che precedono l’Unità era la grande zona di via Nazionale, un’area di orti e giardini, di vigne destinata a diventare forse la prima strada romana così ampia da sembrare progettata dal barone Haussmann, l’urbanista di Napoleone III che ridisegnò Parigi. Una modernità a prova di barricate che in strade tanto larghe non si possono innalzare.
De Merode e i suoi amici di curia certamente non erano ben visti dal nuovo potere sabaudo. Ma i loro appetiti vennero incorporati dal nuovo stato in cui il solletico della rendita si univa a una straordinaria propensione ai lavori pubblici. Così l’esordio Savoia a Roma avvenne partendo da una tragedia: la grande inondazione che il 28 dicembre dello stesso 1870 sommerse la città. Se girate nei quartieri affacciati sul Tevere, tra Campo Marzio e Ponte fino a via del Corso o piazza Navona trovate ancora all’altezza dei primi piani le lapidi di marmo che indicano l’altezza raggiunta dalle acque del fiume. Il Re, che non aveva mai visto Roma, venne in visita, creò una commissione per trovare una soluzione. Il decisionismo sabaudo non fu così efficiente e ci vollero anni, ci volle Garibaldi e le sue idee strane di un canale navigabile che sostanzialmente togliesse il fiume dalla città riducendolo a un ruscello portando le acque del Tevere lontano dalla città, per convincere le Camere a fare qualcosa.
Il qualcosa sono i Muraglioni. Fu un cambio urbano epocale: per farli vennero demoliti palazzi e strade, sepolte rovine romane nella zona del Foro Boario, edifici seicenteschi, pezzi della città medievale e soprattutto si cambiò irrimediabilmente il rapporto tra la città e il fiume. Come era Roma? Le case a bordo del fiume, il corso irregolare che si allarga e si restringe. Il progetto dell’ingegner Canevari (vincitore della gara) prevedeva dei muraglioni altissimi, le banchine lungo il fiume e una distanza costante tra le due spallette di cento metri. Nel progetto si doveva anche cancellare l’Isola Tiberina che però fu salvata, per fortuna.
Per completare i muraglioni ci si mise quasi un quarantennio e fu quello in cui Roma cambiò maggiormente il suo volto. Ci furono gli interventi di “riempimento” dei vuoti urbani (l’Esquilino, via Venti Settembre in cui si allineavano i ministeri con le loro grandi moli) che finirono per riempire il perimetro delle Mura Aureliane nei secoli svuotato dalla infelice decrescita di Roma.
La città in epoca imperiale contava un milione e mezzo di abitanti e nel medioevo era arrivata ad averne 50mila. Ma insieme alla nuova edificazione si fa strada l’idea di una ristrutturazione radicale della città vecchia, specie di quella medievale strettamente tessuta a quella classica e a quella rinascimentale. Gli edifici medievali, infatti si erano abbarbicati e sovrapposti alle strutture antiche e alle rovine che avevano lasciato, il Rinascimento coi suoi palazzi signorili aveva diradato le case e aperto le piazze ma il tessuto restava fitto e inestricabile. Le cose erano destinate a mutare, e il nuovo secolo s’annuncia con le demolizioni.
A dire il vero gli abbattimenti non sono proprio una novità romana: nel 1860 a Firenze era stata abbattuta la cinta muraria, nel 1902 a Bologna avviene la stessa cosa, a Milano sono i Navigli a farne le spese. E’ un’ansia che mette insieme lo spirito positivista del progresso (quanti interventi vennero fatti per bonificare l’aria mefitica dei vicoletti) e quello bolso del nazionalismo che vuole dar lustro al paese e alla sua monarchia un po’ provinciale e che si accanisce con le stradine strette e le case appoggiate ai monumenti. Insomma il moderno era nemico di quell’abitudine così romana e papalina in cui le plebi condividevano le strade e i luoghi dei palazzi nobiliari.
Il piccone non l’ha inventato Mussolini (anche se lui ci ha messo molto del suo). No, le prime grandi demolizioni precedono il fascismo e in qualche modo lo preparano. L’archivio Alinari ne è straordinaria testimonianza. La zona della città più toccata non poteva essere che la più centrale, quella attorno al Campidoglio e ai quartieri che lo connettevano da una parte all’antico Ghetto e dall’altra a Palazzo Venezia, poi con gli anni seguirà l’area in direzione del Colosseo. Oggi abbiamo un’idea del Campidoglio come di una colle, un’arce, separato dalle case, con due grandi strade attorno, coi tornanti che salgono tra palazzi antichi e alberi. Un secolo fa il Campidoglio era stretto dalle case e sulle rampe c’erano le “fraschette”, le osterie o le botteghe artigiane. In direzione del Ghetto c’era piazza Montanara.
Un luogo di ritrovo di operai e braccianti in attesa di lavoro. Una piazza di caporalato, diremmo oggi con pastori e contadini, con le loro scarpe di stracci e gli ombrelli necessari a seguire le greggi fin dentro la città. E accanto il Teatro Marcello stretto tra le case, nei fornici romani c’erano magazzini e falegnami, fabbri e maniscalchi, riparatori di pentole di rame, carbonai e venditori di finimenti, nei piani alti le residenze dei nobili.
I Savoia scelsero questo pezzo di città per creare il loro monumento celebrativo connettendolo strettamente ai fasti della Roma antica. Il progetto era quello dell’Altare della Patria. Un monumento gigantesco che non aveva davanti una piazza ma un mare di case. Per far posto ai marmi del Vittoriano (il milite ignoto arrivò molto più tardi, giusto il 4 novembre del 1921 a ricordo di quella tragica catastrofe che fu la prima guerra mondiale).
Per realizzarlo fu demolito tutto: gruppi di case, interi isolati, persino qualche palazzo rinascimentale nobiliare “limato” per ingrandire le strade. Cadde la Torre di Paolo Terzo, le case che avevano ospitato Giulio Romano e Pietro da Cortona, due artisti che avevano dato lustro a Roma. Fu abbattuto p ersino un arco che connetteva il Campidoglio a Palazzo San Marco, e che venne spostato per “dar fiato” al Vittoriano. Il non lontano Circo Massimo conteneva le ciminiere della fabbrica del gas e lo scheletro metallico del gazometro. Andò tutto via.
E i romani?
A migliaia vennero spostati, allontanati dando inizio ad un’epoca che col fascismo trovò il suo acme. Dal 1929 cadde la spina di Borgo per far
spazio a via della Conciliazione, poi toccò a Corso Vittorio, quindi all’intero quartiere Alessandrino dove ora c’è via dei Fori Imperiali.
I romani, i poveracci che riempivano il centro della città furono spostati in periferia, anzi il più lontano possibile dalla città, nelle borgate di nuovo insediamento in case popolari poverissime. Il paesaggio della città cambiò radicalmente e piazza Venezia, la grande platea davanti al monumento che doveva commemorare i Savoia, diventò il teatro di Mussolini. La gente in camicia nera si trovò a guardare il balcone di Palazzo Venezia al posto dei marmi dedicati a Vittorio Emanuele.
La città che oggi conosciamo e che ci appare “storica” è frutto di cambiamenti radicali avvenuti giusto cent’anni fa. E le foto Alinari ci aiutano non solo a ricordare cos’era la Roma di prima ma anche a vedere in filigrana i cambiamenti (urbani, di senso comune, di stratificazione sociale, di gusto estetico) di questa strana, contraddittoria modernità.