Ripensandoci, presupponevo amore,
credo. Quantomeno, sentivo un soffio di morte
ogni volta che lei se ne andava. La sua teoria: il sesso
è l’unica via verso la verità. Filosofia,
religione, fisica – gli altri
percorsi tradizionali – tutto sbagliato. Solo la poesia
ci andava vicino, ma chi riesce a vivere di poesia?
Come una sacerdotessa vudù, cerco soltanto
di mostrare i muscoli mistici, per sottomettere
un uomo in ogni porto che mi sappia riconoscere,
sapendo che ci separeremo senza un pianto.
La notte scorsa, svegliatami, scossa, volevo sesso.
Non sapevo bene dove mi trovavo, né perché
non ero nel mio letto. Lui, perplesso
per la mia confusione, mi ha calmato con il sesso.
C’è già un destino nel nome del poeta. Cloto, Lachesi o Atropo? Quale Moira sarà la Egan? C’è già un intento esplicito nel titolo: Amore e morte. Un indice didascalico: Amore – Morte – Sesso – Filosofia – Poesia.
Il telefono
Quando lo guardo
Sento il violento
Sentimento del niente
(sono, quindi, eccessiva
o eccedente)
Quando squilla
Tutto il mondo chiama e parla
Quando il telefono non squilla
Sei sempre tu
Che non mi chiami
Siccome lontano,
in quanto lontano,
ti muovi sconosciuto,
uscito dalla nostra
porta aperta,
come il futuro
del nostro passato
verso una vita certa
(si ha sempre l’impressione
che chi esce dalla nostra
poi viva molta vita
esposta all’aria aperta
e al chiuso si diverta,
e con tutto in mostra)
La voce è femminile, certo,
perché tu sei vile
Ti scrivi come se io
ti avessi scritto
Poi credi che l’abbia fatto per davvero
(tu che leggi, ovviamente tu che leggi)
Un poema vertiginoso, un monologo (o un soliloquio) costruito su un paradosso dichiarato: chi scrive immagina che sia una donna, il suo amore, l’amore straziato e finale di tutto il poema, a scrivere.
ci sarà un cassetto e in fondo
dormirà con dura luce,
tra le cose che col tempo
si cancellano, un coltello.
Un acciaio entrò nel petto
e il suo volto non mutò;
Alejo Albornoz morì
come se non gli importasse.
Penso che a lui piacerebbe
sapere che oggi la sua storia
la racconta una milonga.
Il tempo è oblio ed è memoria.
Manuel Flores morirà.
Questa è cosa risaputa;
morire è un’abitudine
che la gente sa osservare.
La Milonga, o il tango delle origini, non si sa se sia stata inventata a Buenos Aires o a Montevideo, pare sia una questione antica. Di sicuro non è stata inventata a Napoli...
‘E parole nun servono a niente…
Ce vulesse pe nuie n’ata terra,
terra senza cunfine,
Senza tiempo, senza gente.
Io stevo ccà,
forse io già stevo ccà mill’anne fa.
Ero ‘o scoglio?
Ero ll’onna?
Ero ‘a rena?
Che miracolo stammatina
io, cull’uocchie d’’a meraviglia,
veco ‘o munno p’ ‘a primma vota,
comme fosse nù piccerillo
Sono sempre stato distante dalla poesia dialettale. Quella lombarda, romagnola o friulana non la capisco, nel senso che non riesco a leggerla in originale, a cantarmene il suono guardando la traduzione...
Io non sono né maschio né femmina,
non sono il sole non sono la luna,
io sono il cosciente
non vengo dalla terra
e non evado in cielo
la mia bocca è piena d’oro,
il mio corpo somiglia a una nuvola,
la sofferenza della terra è il mio mantra,
Anche io
che so smarrire le mie ossa
nel tuono,
anche io che striscio nel fuoco del silenzio
anche io anche io
che sono il tuono riunito del mare
ho bisogno di una casa
e della mia terra ferma.
Quando la coscienza è desta
e il pensiero svanisce
i suoni mi accarezzano
soavemente.
Alla morte del pensiero
viene la gioia.
C’è un’evidente necessità di dire, in questo libro di Antonio Santiago Ventura. L’urgenza costante di nominare, definire, qualificare gli elementi. E più si cerca di fermarli sulla carta più si trasformano ....
Giunti da te, con stanze in altre stanze,
mi chiedo dove sei: come in un bosco
si sentono soltanto le fragranze
di ciò che vedo opaco e non conosco.
Infatti col bemolle dissonante
In questo ormai perpetuo chiocciolio
C’è un suono in cui si alterna il sì col no,
il senso di un vicino allontanante,
l’ipnotico presente col suo oblio…
qualcosa di un ricordo che non so.
Non riesco più a adattarmi,
mi prende con sorpresa in questo tedio
la buia voce ignara,
non so qual timbro strano a consolarmi,
o un sogno a sgominare ogni rimedio.
Ma questa è la Poesia, lavoro silenzioso e appartato, fatica delle rime, della misura, del passo walseriano, (che di Walser Aman è profondo conoscitore e studioso). La capacità di suonare tutte le note...
Io
sotto l’abete
in pace
come una cosa della terra
come un ciuffo di eriche
arso dal gelo.
La parola è questa: esiste la primavera,
la perfezione congiunta all’imperfetto.
Il fianco della barca asciutta beve
L’olio della vernice, il ragno trotta.
Diremo più tardi quello che deve essere detto.
Per ora guarda la bella curva dell’oleandro,
i lampi della magnolia.
Il salice si spoglia
Il maestro e io
Sentiamo la campana.
O sul ciliegio Mizuhara Shuoshi
Ciliegi di monte
Contro i picchi nevosi;
non si sente una voce.
Una sezione introduttiva “generica”, il Prologo degli alberi, e 76 sezioni, da Abete a Vite, tutte introdotte da un’approfondita scheda-albero e da una breve rassegna degli autori e dei testi presenti e conclusa dalla bibliografia degli stessi...
Esco in giardino stanco, a mezzasera;
lì c’era il verde del verde lì c’era
il cielo del cielo lì c’era il vero
del vero perduto di me nel perdermi
o per farmi archeonauta di me stesso
con il passo che dà seguito al passo
C’è un’ansietà d’attesa nella stanza:
il calabrone è un acino di rabbia.
Ha descritto da parete a parete
spigoli d’aria. Ha cabrato e picchiato.
Sfiorato sul tavolo frontespizi
e costole, cime di suppellettili
le rime di me trascritte sui fogli.
Ho spalancato tutte le finestre,
abbandonati i fogli. Fuori il sole
è fiorito sui rami, sorridente
fra me che scrivo e la parola niente.
Questa pioggia è da ascoltare,
è il concerto delle gocce:
fatto in battere o in levare
suona note dolci o chiocce.
Fruscian gocce sopra il prato,
tamburellano le foglie
ridon tutte sul selciato
piange il vetro che le accoglie.
Sembra quasi dire il cielo
Sono triste e allora piango,
ma in compenso, in parallelo,
ogni goccia balla il tango,
molte scendon le grondaie
tristi alcune, alcune gaie.
Nessuna poesia è altro dalla vita di chi l’ha scritta. In molti poeti della fine del secolo scorso si legge il tentativo di staccare la vita propria dai propri versi, farne un’altra, costruirla sul mito e il segreto iniziatico o sulla decostruzione del linguaggio....
Sarebbe bello
un giorno
portarvi in giro.
Un giorno
di grazia
mi spiegherai il tempo
tutto intero
ed io
appena risvegliato tra le stelle
ascolterò sorpreso
il tuo mistero.
Ora che non sei pensiero
in silenzio
di schiena
riparo.
Da dove arrivi
improvvisa voglia d'infinito
tumultuosa onda
che nel miraggio schiumi
e d'assoluto incanti?
Sembra quasi voglia nasconderla, la poesia, in questa sua prima opera in versi, Paolo Castagnola. Una specie di timidezza della parola, immersa in una serie molto bella di fotografie di Roberto Orlando, (che meriterebbero una nota a parte)...
Il cielo sta nel pensiero di piangere.
Sulla strada
gli uomini sono andati metà muro metà fiume.
Sto qui molto lontano dai templi,
dalle processioni tra i lumini,
molto lontano dai romanzi
dove c’era la luce dei visi.
Guardo, vicino l’acqua, l’acqua.
Quando dici “erba” piango,
quando nelle tue parole ci siamo noi e c’è tutto
l’avere incominciato da piccoli,
qui in questa terra, dici, questa nostra terra.
Quante parole non ci sono più.
Il preciso mangiare non è la minestra.
Il mare non è l’acqua dello stare qui.
Un aiuto chiederlo è troppo.
Morire e non c’è nulla vivere e non c’è nulla, mi toglie le parole.
(…)
E io dico, accorgetevi, non abbiate solo vent’anni,
e una vita così come sempre da farmi solo del male.
Ma io nella mia vita non ho scritto nessuna poesia,
io nella mia vita non ho letto nessuna poesia.
E questa nessuno l’ha scritta, nessuno l’ha letta.
Non c’è un errore, c’è un’urgenza. Devi andare da qualche parte, devi fuggire da qualcosa e come negli incubi cammini contromano tra la folla delle parole: qualcuna la urti, qualcuna la fai ruotare. La lingua è come il viandante in un ingorgo. Spinge, scansa, fa ruotare, urta...
Si decida il contabile del tempo
a restituirci gli anni non vissuti,
tutti i sogni, le cose, i persi sguardi,
le idee che vanno, veloci, a scomparire.
Che si decida presto a rimborsare
quanto ognuno ha mancato,
smarrendo dell’amore il caro nome.
Non c’è altro luogo, credimi, che questo,
tutto il bianco possibile, la pagina
e poi quelle formiche delle righe
a dire il poco, il molto che noi siamo,
ma non tanto di me e del passato
quando era l’unico presente che avevamo,
non tanto di una vita dice la scrittura
ma di quel niente in cui te la riduce (…)
Ma da quel cielo delle stelle fisse, Mare e Madre,
Ad una consonante che sfiora la pronuncia,
Rosso d’ossido e ferro il dì di Marte,
Termine ch’è ringhiera e spada
E sabbia di tempeste, acqua di ghiaccio:
Dove va il giorno che insegue la sua notte,
Il giovane giorno con tutte le sue ore?
“C’è una pace felice che non vedi”
Ma pure sale, dai gradini del verso,
s’incammina umilmente la parola,
colma di sé quell’aria che respira,
dona chiarore al nero, lo convince
a durare più in là di un breve passo, (…)
Sembrerebbe un libro antico, per suoni e riferimenti e citazioni. E sembrerebbe un libro d’occasione, un omaggio prolungato ad amici, autori, maestri. Un libro che insegna la poesia e che la impara nel suo scriversi e mutare. Che aspira al tempo e col tempo ricerca compromessi.
Certo, che sei passata anche tu
Nella mia vita.
Male, e quasi controvoglia, ma sei passata.
E forse, nemmeno è stata
la mia, quella vita.
Qui, ogni giorno la memoria diventa
più sciatta. Come
una maceria, dove non si cammina.
E poi ci sono io,
che vedo solo del bianco,
al più una specie di nebbia d’altri tempi
invece di certe scene,
certi pensieri d’amore, certi
incontri con Dio
dei padri dei miei padri…
Poi, ci sono passato tante volte,
in Piazzale Baracca.
Non ho mai provato nulla.
Ho solo pensato che lì la vita, anni fa, mi aspettava.
E forse, era già bella,
non bellissima. E io non capisco
se stava già vicina
a mia madre, o era altrove.
Arrivo a chiedermi
Se stava in una donna diversa.
Visti da lontano,
anche i miei legami di sangue sembrano caricature
di altri legami di sangue.
E io che mi sento leggero, e quasi arrivato qui dal nulla.
Non so chi l’ha voluto,
quel silenzio su Milano, il silenzio
del dopo-Sereni.
Che, a volte, è sembrato stupendo.
Specie a fine agosto.
In certe terrazze, e in certi viali.
Non l’ho mai interrotto.
Mai stato capace.
Certo, c’era il mio deficit verbale. Ma non solo quello.
Sono arrivato tardi.
A silenzio già cominciato,
a voci già cadute.
Una vita occasionale, la propria o quella di altri, incontrati e perduti. Un’autobiografia anomala, per testimonianza indirette, per incertezze continue, per possibilità aperte continuamente e continuamente chiuse. Per occasioni apparentemente non colte da un poeta distratto dalla vita...
rispose
quelle poesie
sono terribili, e in una di quelle scrivevo
se papà è stanco/dio è stanco, ma certe cose sono quello che sono
e la poesia
detta un precedente – non avevo dio prima del padre
I primi a soccorrermi furono i poeti, mentre corro o volo
come in tanti sogni faccio salti lunghissimi e posso con niente
raggiungerti,
io posso
Padre, tu che ora sei infinito
hai chiuso col passato, noi
invece ti cerchiamo nei frammenti,
nella ripetizione di parole, e sempre
sembri una poesia. Padre, dammi la forza,
fuori c’è un vento un vento un vento
strabico, come i pensieri
Frollini è un giovane poeta, cui provo a scrivere una lettera a imitazione di Rilke. Visti i sentieri che percorre e che pure, nel destino che si regala, abbandona.E questo confonde chi legge nel parlarne. Come nelle liriche antiche, nelle prime trascrizioni, si ascoltava il canto aperto e poi il recitativo, l’a parte....
Nudi e senza pudore
i poeti lasciano in eredità
solo la vergogna che non hanno.
La mia poesia è un ridicolo reato:
un atto impuro in luogo privato.
So, forse, essere un seme
un seme piccolo
nel becco giallo di un merlo
Col coraggio di una rosa
sono tornata a casa.
Ho visto la facciata dal basso
una platea di fiori viola
applaudiva alla mia vita.
In tasca ho un segreto in meno.
Mi vesto lentamente ogni mattina
e non sono più niente.
Come se in poesia si potesse decidere di essere minori, e quasi giustificarsi, i versi di Doris Bellomusto tentano una terapia, ad ammansire il corpo, a ferirne e risanare gli ardori. Una poesia minore si giustifica, è incredula, si offende a riconoscersi e richiama il Corazzini del “Perché tu mi dici poeta?”...
Nel nostro irrisolvibile sentire
che quasi sempre esclude la parola,
a farsi udire appaiono gli sguardi…
i viali resi nuovi dalla notte.
Intuivo dentro l’aria quasi nera
Ma non sapendo più verso qual varco
Il flusso profumato dei preludi
Che chiamerò immortali.
Pensosi noi torniamo agli aspersori
cui hai dato dei bacili in orli ondosi,
e al quieto non so che di quei bouquets,
adepti con un cuore senza stili.
Il senso di un benessere straniero
portato dalle vasche e i cinguettii
si alterna nel pensiero in confusione
a un non so che di immobile e ammaliato.
È un luogo impalpabile ed evocativo il giardino di Silvio Aman. Un posto dove incontrare consuetudini antiche, maghe benevole e dolorose, associazioni di piante benefiche e letali. E nessuno lo canta come lui, nessuno lo ferma nella forma magnetica e stabile di tre quartine di endecasillabi fioriti o innevati o indecisi nella stagione permanente di ricordi e incontri.
Non resterò a guardare sulla porta
La nebbia all’orizzonte:
aprirò quella finestra sul retro
al tramonto
ritrovando la via dei campi.
Una volta
mi sono sentita amata,
al sicuro, avvolta (…)
Accanto a te
non provavo
fame né sonno
Non ho voglia di restare
smarrita
nel conflitto
svilito
della realtà.
Io dico
lui dice
nessuno ascolta.
Potrebbe essere utilizzata da subito per dare corpo al titolo schilleriano Sulla poesia ingenua e sentimentale, questa raccolta di Alessandra Agnoletti. In realtà è un po’ una storia capovolta, il diagramma sinuoso di un amore che appare a rigenerare stanchezze ma che non fomenta alcuna ascesa.
La notte compresa in un unico cielo
si apriva ventaglio e mano a mano
dalle pieghe si accesero nell’aria
soavi le cupole d’oro
Se poi tutto l’effimero
di queste poche ore
fosse l’eterna storia
noi sbriciolati sul terrestre
e la stagione a scandire
indiscutibile un giro di lancetta
Fammi sentire la tua mano
tra pelle e armatura
seminare le carezze negate
Così nel viaggio non coltivi
Nostalgia ma il chiodo
All’incrocio delle ore
Io con te, a inseguire a malincuore
Il sonno, poi le curve e i condomini
Da un cielo privato ai cieli plurali di Roma, il viaggio di Cannillo si fa fisico e più che i cieli diversi si vedono pietre e archi e cupole a fare da sfondo a un amore racchiuso in una sola notte forse, ma eterno come tutti gli amori del mito e come le finestre aperte sulla città che si accende.
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