C'è un periodo della storia italiana in cui Genova, più di molte altre città, sente l'urgenza della rivoluzione, industriale ma anche borghese. Una rivoluzione che non fu soltanto economica, politica e sociale, ma anche urbanistica. Un concetto facile da scrivere, ma un po' più complicato da immaginare al giorno d’oggi, se non arrivassero in soccorso le straordinarie fotografie storiche degli Archivi Alinari, nelle quali Genova sembra la città di “Crêuza de mä” cantata da De Andrè, ma elevata all’ennesima potenza: “Umbre de muri muri de mainé/dunde ne vegnì duve l'è ch'ané”. Ombre di facce facce di marinaio, da dove ne venite e dov’è che andate... Dove le “creuze”, le strette e ripide salite di mattoni e pietre, erano l’apparato circolatorio vitale della città e non i luoghi della nostalgia.
Siamo nella seconda metà dell'Ottocento e la rivoluzione comincia anche dal porto, che fin dalle sue origini rappresenta la risorsa senza la quale Genova non sarebbe mai diventata prima una potenza finanziaria e marittima e, più avanti nella storia, uno snodo logistico fondamentale per far correre un'altra rivoluzione, quella industriale, e lo sviluppo economico dell'Italia appena unita. Merito di una posizione geografica strategica, certo, ma anche di una certa intraprendenza, peculiarità decisiva soprattutto per far fronte a una concorrenza agguerrita, in tutte le epoche, di molte altre potenti città portuali del Mediterraneo.
E proprio il confronto con un’ambiziosa rivale francese, Marsiglia, sta alla base della rivoluzione del porto e quindi della città. La quale da "Genua urbs maritima", città di mare per definizione, comincia a diventare città di porto, nel significato moderno della definizione. Sembra una sottigliezza, ma nella seconda metà dell'Ottocento Genova e i suoi moli si allontanano progressivamente fino a dividersi con tanto di mura e recinzioni: fisicamente quindi, ma anche culturalmente. E infine socialmente. Il porto che prima era in osmosi permanente con la città che lo aveva generato finirà per diventare un'entità generosa ma lontana che fagocita spiagge e terreni, che stravolge i borghi al di là della Lanterna e che non sempre ripaga del sacrificio, in particolare quando, verso la fine del secolo scorso, si compie l'ultimo (almeno per ora) atto della metamorfosi, con la nascita del grande terminal container di Prà-Voltri.
La trasformazione era già iniziata subito dopo l'annessione di Genova al Regno Sabaudo, ma molto a rilento, nell'arco di 40 anni tra il 1820 e il 1860. Il problema era in sostanza la necessità di rifornire, in Piemonte e in Liguria, la neonata industria siderurgica, che proprio a Genova aveva la sua punta di diamante: l'Ansaldo di Sampierdarena. Ma a Genova arrivavano anche le materie prime per molte altre industrie: concerie, fabbriche tessili della lana e del cotone. E il porto si scopre angusto e con fondali troppo bassi, tanto che i velieri più grandi sono costretti a fermarsi al centro del bacino per essere scaricati da una spola interminabile di piccole chiatte. Sono gli anni in cui la ferrovia per Torino e per Milano comincia a portare i treni più vicini alle banchine. E soprattutto sono gli anni in cui arrivano le prime navi a vapore, il cui numero crescerà a dismisura e molto rapidamente insieme con il volume dei traffici. Ma l'intervento sabaudo non è sufficiente a garantire il rilancio del porto: di fatto in questa prima parte della metamorfosi - salvo rare eccezioni come la realizzazione del primo bacino di carenaggio in muratura alla Darsena - le risorse messe a disposizione dal Regno sabaudo servono a garantire tutt' al più gli interventi di manutenzione ordinaria.
E così la partita passa in mano agli imprenditori genovesi più illuminati, primo fra tutti Raffaele De Ferrari, che è anche banchiere, politico, duca di Galliera per volere del papa Gregorio XVI e poi principe di Lucedio (feudo con tanto di castello e di abbazia meravigliosi e sperduti nel cuore delle risaie del Vercellese) per decisione del re Vittorio Emanuele II. De Ferrari, cui verrà poi intitolata la principale piazza della città, nel 1874 torna da una visita al porto di Marsiglia e decide di investire 20 milioni di lire per il rimodernamento delle banchine genovesi. Che cosa significavano 20 milioni all'epoca? Con precisione non saprei dire, però, tanto per dare un'idea, il Regno spendeva al massimo per il porto di Genova 400mila lire l'anno. De Ferrari aveva capito che il divario tra Genova e Marsiglia stava rischiando di diventare incolmabile e decise di intervenire di persona, con risorse proprie. Grazie al suo tesoro vengono così realizzati altri bacini di carenaggio, la stazione marittima ferroviaria, la stazione marittima per i passeggeri, vengono risistemate tutte le strade interne dello scalo e costruiti nuovi moli. Alla fine saranno 63 i milioni investiti dai genovesi per aggiornare le infrastrutture portuali. Così succede che a fine secolo transita da Genova il 90 per cento del cotone di importazione, il 35 per cento del carbone, il 32 per cento dei prodotti siderurgici e il 40 per cento del grano.
La rivoluzione del porto, come si diceva, modifica anche il volto della città e imprime un forte cambiamento sociale: i "camalli" della mitica Culmv nata nel 1340, danno origine alle prime organizzazioni operaie, suddivise per categorie (carbone, cereali, merci varie...). La controparte è il neonato Consorzio autonomo del porto cui viene assegnata la gestione delle banchine, appunto in autonomia, con la speranza di risolvere i nuovi problemi che la crescita esponenziale dei traffici aveva provocato. Oltre alle merci era esploso il traffico dei migranti verso le Americhe: in porto non esistevano strutture in grado di accoglierli e l'affollamento nei moli era diventato anche un problema di sicurezza. In quel periodo, non a caso nasce (nel 1892) a Genova il Partito Socialista, e i portuali sono i protagonisti della nuova stagione politica, fatta di scioperi per migliorare le condizioni di lavoro e di rivendicazioni dei diritti dei lavoratori nel tentativo di contenere la controparte imprenditoriale che con il falso mito del “lavoro libero” assolda in banchina per "quattro palanche" un esercito di contadini senza più terra da coltivare. Le conquiste dei camalli, da lì a poco, andranno a costituire il primo statuto dei lavoratori d'Italia, ossia l'Ordinamento Generale del Lavoro.
Con i traffici cresce la ricchezza della città. In particolare, lievita il potere finanziario della grande borghesia che proprio al rilancio del porto deve le sue ulteriori fortune. Ed è per questo, per il desiderio delle famiglie di mantenere vivo il loro prestigio anche post mortem, che nasce per esempio il cimitero monumentale di Staglieno, dove la crema della società genovese si celebra attraverso i capolavori di alcuni straordinari scultori: Giulio Monteverde, Luigi Orengo, Santo Varni... Oddio, anche la classe operaia va in paradiso, grazie al patto interclassista tra commercio, industria, finanza e lavoratori e all’intuizione di Giovanni Ansaldo, che fondò una scuola serale per operai, divenuta rapidamente il più importante istituto politecnico d’Italia. E soprattutto nasce il nuovo asse urbanistico della città, con la realizzazione della sontuosa via XX Settembre. Pochi anni dopo, per l’Esposizione mondiale del 1905, viene costruita l’altrettanto monumentale Stazione Brignole. Un periodo d'oro che dura fino alla Prima Guerra Mondiale: nel 1918 passa dal porto di Genova il 50 per cento di tutta la merce diretta in Italia. I moli si intasano, i limiti strutturali sono evidenti e bisognerà aspettare gli anni Venti per un nuovo rilancio.
Il fascismo investe molto sulle banchine genovesi: viene realizzata la centrale termoelettrica accanto alla Lanterna, nel '35 nasce la prima autostrada d'Italia, la Genova-Serravalle, il porto “tracima” dal suo bacino naturale e dilaga: a Levante le spiagge devono cedere “il posto al sole” al porticciolo da diporto Duca degli Abruzzi, mentre verso Ponente, a Sampierdarena, viene costruito un bacino di carenaggio king size capace di accogliere le navi più grandi in circolazione.
Con lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale il porto viene praticamente distrutto: prima i bombardamenti alleati (sono 86 solo le incursioni aeree cui vanno ad aggiungersi i cannoneggiamenti dal mare), poi i sabotaggi dei tedeschi in fuga lo riducono a una grande pozza piena di relitti e di moli in macerie. Nel '45 pertanto bisogna ricominciare daccapo. E si va di corsa: in tre anni il porto viene ricostruito e torna pienamente operativo, nel giro di un decennio il traffico delle merci è già superiore a quello del periodo prebellico.
Nel frattempo la dimensione delle navi continua ad aumentare, le imprese siderurgiche e petrolifere soprattutto tendono a dotarsi di flotte proprie e preferiscono avere in gestione diretta ed esclusiva i moli per accelerare i tempi di movimentazione dei loro prodotti. Il mercato degli idrocarburi diventa di gran lunga la prima voce nella tipologia delle merci in arrivo. E quando si parla di trasformazioni della città per assecondare le attività del porto, gli effetti nel dopoguerra sono impressionanti: in Valpolcevera, a San Quirico, nasce nel 1947 la Raffineria Garrone, un gigante di lamiere luccicanti che stravolge l’ambiente: modifica il panorama, cambia il colore del torrente Polcevera e persino l’odore dell’aria. Pochi anni dopo, senza compromessi tra ambiente e lavoro, nasce a Cornigliano l’acciaieria a ciclo integrale Oscar Sinigaglia, un altro mostro che però dà lavoro a migliaia di famiglie, in gran parte provenienti dal Sud Italia. E pensare che poco più di un secolo prima qui veniva a riposare, e forse a ispirarsi, Ugo Foscolo, tra le colline morbide di Coronata e i giardini delle elegantissime ville sei-settecentesche, dimore estive della nobiltà genovese.
Con il boom economico postbellico si prepara in sostanza il terreno per l’ultima rivoluzione portuale: si comincia nel 1960 con un terminal di carbone per le acciaierie, nel ‘63 viene inaugurato il porto petrolifero di Multedo, al confine con una delle zone di maggior pregio della città, il quartiere di Pegli dove, poco prima della rivoluzione del porto, il marchese Ignazio Pallavicini aveva creato uno dei più apprezzati giardini romantici d’Europa.
Ma una nuova svolta dirompente, anche per il mercato del lavoro, si compie nel 1969, quando viene realizzato il primo terminal container del Mediterraneo nel bacino di Sampierdarena. Negli anni Settanta la forza lavoro raggiunge il suo picco: soltanto alla Compagnia Unica Lavoratori Merci Varie (la Culmv dei camalli) i soci sono 7 mila: un record, oggi sono poco più di mille; il Consorzio Autonomo ha 3.500 dipendenti, e poi ci sono i carenanti, i carbonini dell’altrettanto mitica Compagnia Pietro Chiesa. E tutti fanno lo stesso lavoro, scaricano navi e hanno le stesse competenze: tanto che spesso tra i portuali finisce pure a botte.
I container però dilagano rapidamente, si impilano nelle banchine e in tutte le (scarse) aree disponibili in città. Tanto da innescare la necessità di un’ulteriore espansione verso Ponente del porto: nel 1992 viene inaugurato, previa cancellazione della spiaggia di Prà, il nuovo terminal container, uno dei più grandi del Mediterraneo, chiamato per sbaglio Porto di Voltri. Un errore al quale si è rimediato, almeno per quanto riguarda il nome, soltanto nel 2019. Ora si chiama correttamente Porto di Pra’, su insistente richiesta degli abitanti del quartiere: per la serie ci avete tolto la spiaggia, almeno lasciateci il nome.
Il 1992 è però anche l’anno della parziale riconciliazione della città con il suo mare. Perché con le celebrazioni per il cinquecentesimo anniversario della scoperta dell’America tutta la zona del bacino a ridosso del centro storico viene ristrutturata per accogliere l’esposizione internazionale e viene restituita alla città con le linee e i volumi disegnati dall’architetto Renzo Piano. Nasce tra l’altro l’Acquario più grande d’Europa e il cosiddetto “Porto Antico” diventa un luogo vivo e culturalmente vivace della città.
Prima del ‘92 nel porto vecchio non potevano entrare tutti. Prima del ‘92, il mare che aveva fatto la fortuna della città nemmeno si vedeva dal centro storico, se non dai piani alti di alcune case: in pratica era come se non ci fosse. Per vederlo da vicino, sfiorarlo con la punta dei piedi, bisognava andare oltre la foce del Bisagno - quello delle tragiche alluvioni genovesi - oppure spingersi molti chilometri dopo la foce del Polcevera, il torrente scavalcato dal ponte Morandi e, ora, dal ponte San Giorgio. Ecco, in questa parte della città il mare è ancora oggi molto lontano, precluso, quasi estraneo. E’ un mare che bagna acciaierie, cantieri navali, piste aeroportuali, banchine petrolifere, terminal container. La città è oltre, fitta, disordinata, periferia figlia del Novecento, dove qua e là resistono ville seicentesche e settecentesche con vista sul laminatoio azzurro o sulla foresta delle gru giganti del porto. E dove persino con la forza dell’immaginazione è difficile intuire come potesse essere, prima di tutto questo, la simbiosi della città con il suo mare. Giorgio Caproni in “Litanìa” la dice così: Genova di sentina./ Di lavatoio. Latrina./ Genova di petroliera,/ struggimento, scogliera.
Certo, questo rapporto di amore e odio è destinato a nuovi equilibri. Sul piatto della bilancia l’amore ora sembra in vantaggio. Il progetto, sempre di Renzo Piano, che ridisegna il waterfront di levante consente di proseguire nel cammino della riconciliazione tra Genova – o almeno di una parte della città - e il suo mare. L’architetto proprio nei giorni scorsi ha voluto ribadire il principio ispiratore della sua creazione che in pratica conclude l’opera cominciata nel ‘92 con il Porto Antico. Piano in dieci punti delinea così la nuova Genova: “Un filtro vegetale mitigherà la presenza della sopraelevata e della viabilità portuale, che deve avere caratteristiche urbane e non infrastrutturali”. L’obiettivo ultimo è ricucire lo strappo, restituire alla città “una spiaggia urbana” con intorno una zona green, con tanto di canale navigabile e barche all’ormeggio, parco urbano, centro commerciale, alberghi e più spazio per il Salone Nautico. E soprattutto una passeggiata a mare che consentirà di partire dai portici di Sottoripa per arrivare fino al borgo marinaro di Boccadasse: De André avrebbe di sicuro approvato. I cantieri sono aperti e non resta che attendere, non oltre il 2022 assicura Marco Bucci, il sindaco già commissario del nuovo ponte autostradale sul Polcevera, artefice del cosiddetto “Modello Genova” che ora in Italia tanti altri vorrebbero applicare.
Infine c’è il progetto della nuova diga foranea, da realizzare un po’ più al largo di quella attuale, che dovrebbe garantire spazi di manovra più agevoli per le navi che diventano sempre più grandi (Suez insegna) e favorire un accesso più veloce alle banchine.
Ma cos’altro c’è oggi di diverso nel vecchio porto di Genova rispetto a quello che si vede nelle foto Alinari? La curiosità mi ha rapito non appena ho cominciato a sfogliare le pagine digitali degli Archivi. E così sono andato a vedere di persona e soprattutto a scattare qualche foto più o meno negli stessi punti di ripresa delle immagini di fine Ottocento custodite nello scrigno fiorentino. Ebbene, dove prima c’erano i velieri ora ci sono navi da crociera ciclopiche, tanto grandi da fare ombra a buona parte del centro storico. Con questa zona del porto tuttora operativa (in cui transitano, Covid permettendo, 3 milioni e mezzo di passeggeri l’anno tra crociere e traghetti), i genovesi devono ancora fare pace del tutto. Per esempio, senza una carta d’imbarco non si può andare a visitare la (bella) Stazione Marittima di Ponte dei Mille e tantomeno rendere omaggio al monumento dedicato ai lavoratori del porto, realizzato da Gino Guerra nel 1981 e impreziosito dalla poesia scritta per l’occasione da Edoardo Sanguineti: la scultura si trova accanto alla Stazione Marittima, molto oltre la cancellata del varco sorvegliato da guardie armate. Questione di sicurezza, spiegano in porto, e anche per questo il divieto d’accesso mette un po’ di tristezza.