Dialogo realmente avvenuto tra il sottoscritto e l’indimenticabile Umberto Veronesi, pioniere della medicina dei tumori e illuminato esponente del riformismo di rito ambrosiano. Potete trovarci condensato il passaggio di generazioni che ho avuto la fortuna di vivere a Milano.
Quando dai quartieri orientali di Lambrate e Città Studi ci sospingevamo in tram verso la periferia opposta - quasi un viaggio - ho fatto in tempo a vederle all’opera, le lavandaie dei Navigli. Solo intorno alla Darsena, dopo Porta Ticinese, i canali acquatici di Milano erano rimasti scoperti. Anziché bonificarli, giustificando la propria voluttà di cementificazione con motivazioni di igiene, nel 1929 il regime fascista altrove li aveva interrati tutti. Snaturando la città di Leonardo.
Ma loro, le lavandaie, resistevano lungo il Naviglio Grande. Le osservavo stupefatto. Le lavatrici Ignis del signor Borghi, nell’Italia del boom economico, venivano ancora considerate un elettrodomestico di lusso. La precedenza, per le famiglie che potevano permetterselo, era data al frigorifero. Alle donne bisognose di integrare il reddito del marito non restava che armarsi di un secchio di latta, un cubo di sapone da bucato, una spazzola, e quella specie di inginocchiatoio di legno con davanti un’asse su cui esercitare l’olio di gomito per ripulire tovaglie e lenzuola. Faticavano e cantavano, come le mondine delle risaie della non lontana Lomellina.
Le fotografie Alinari che le hanno immortalate in quell’opera umile e preziosa, sono datate fra il 1956 e i primi anni Sessanta. Uscivano dalle cascine affacciate sul canale percorso dalle chiatte che trasportavano carichi di sabbia e ghiaia per l’edilizia in piena espansione. Dopo di che i panni venivano messi ad asciugare su grandi stenditoi che visti tutti insieme parevano vele di bastimenti, affrescando di bianco via Magolfa e le altre strade limitrofe.
Oggi in via Magolfa la casa della poetessa Alda Merini è stata trasformata in “spazio museo”, con tanto di caffè letterario. E a pochi passi da lì per qualche anno sono andato a lavorare negli studi televisivi di La7, mangiando kebab nella pausa pranzo e venendo via la sera prima dell’affollamento nei locali della movida.
Resterebbero da descrivere le fasi intermedie di quella che i sociologi urbani usano chiamare gentrificazione. Ero un ragazzo sessantottino quando degli amici iniziarono a comprare per cifre modiche, con l’aiuto dei genitori, gli appartamenti ricavati dentro alle cascine. I loro vecchi abitanti preferivano le comodità dei casermoni popolari Iacp che spuntavano come enormi funghi tra il Gratosoglio, Stadera e Chiesa Rossa. Non potevano immaginare che vent’anni dopo i decrepiti edifici da cui fuggivano avrebbero raggiunto quotazioni di mercato stratosferiche. Proprio perché avevano conservato la poesia dei portoni ad arco e dei cortili di acciottolato, dove al posto degli orti è ancora possibile fare del giardinaggio.
Di mezzo, c’era stata la Briosca, rustica antesignana dei futuri locali di tendenza. Si trattava di un vecchio trani (venivano definite così le osterie aperte dagli immigrati pugliesi che propinavano bottiglioni di vino discutibile, insieme a molta allegria ai tavoli della briscola). A rilevare quel trani fu il signor Luciano Sada, detto “il Pinza” per l’abilità con cui faceva saltare con le sole dita i tappi a corona. Alla Briosca bastavano due lire per prendersi una sbronza di barbera e mescolare le canzoni milanesi di Nanni Svampa e Enzo Jannacci con gli inni di rivolta proletaria. Potevi tirarci mattina, anche se poi toccavano lunghe camminate a piedi nel gelo e nella nebbia.
Ormai le lavandaie non le incontravi più, ma l’atmosfera era ancora quella di un quartiere diroccato. Sempre lì in via Ascanio Sforza, ci volle lo spirito d’avventura di Sergio Israel per fondare nei primi anni Ottanta, affacciato sull’acqua, il primo locale della musica jazz milanese: Le Scimmie. La birra cominciava a prendere il sopravvento sul vino e la musica subiva analoga evoluzione, dalla militanza al riflusso. Ci sono passati Elio e le Storie Tese, Eugenio Finardi, Bluvertigo, e da ultimo Malika Ayane. Finché il caro affitti e la bolgia delle isole pedonali, dopo 34 anni, hanno completato la gentrificazione costringendo alla chiusura l’avamposto della musica dal vivo.
Addio definitivo. Ma riecheggiano ancora in noi che le abbiamo incontrate le note de “La bella lavanderina”…
“La bella lavanderina che lava i fazzoletti/Per i poveretti della città/Fai un salto, fanne un altro/Fai la giravolta, falla un’altra volta/Guarda in su, guarda in giù/Dai un bacio a chi vuoi tu”.
Se vi mettete a ridere, io e la buonanima di Umberto Veronesi ci restiamo male.