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COMPLEANNI
QUANDO IL ROSA ERA MASCHILE

Le prime feste
tra la fine del Settecento
e l’inizio dell’Ottocento.
Ma solo per i figli dei nobili

di ALBERTO GRANDI

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Nel tavolo a fianco stanno festeggiando il compleanno di due simpatici gemellini, un maschio e una femmina. È appena arrivata una bella torta, metà azzurra e metà rosa, con le sue brave candeline da spegnere. Festeggiare il compleanno ci sembra così ovvio e naturale da farcelo apparire un obbligo che siamo riusciti a trasformare in un piacere; in realtà fino a poco tempo fa non era né un obbligo né tantomeno un piacere.

In primo luogo, fino alla metà dell’800 o anche oltre, stabilire con precisione la data di nascita era un affare tutt’altro che semplice, inoltre dobbiamo tenere presente che per un buon cristiano ricordare il giorno in cui si è venuti al mondo era un atteggiamento decisamente presuntuoso, come vedremo fra poco. Insomma, ci sono stati a lungo degli ostacoli di ordine pratico e di ordine religioso che hanno reso il compleanno quasi un tabù.

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Partiamo dalla pratica. Per i nobili la registrazione del giorno della nascita era la regola fin dal medioevo, ma per il resto della popolazione era del tutto irrilevante conoscere la data del compleanno; in molti casi non era solo irrilevante, ma proprio impossibile. Per gran parte della popolazione mondiale il rapporto con il calendario era quanto mai vago e più che altro legato ai diversi periodi dell’anno che scandivano i lavori agricoli.

Però, il fatto che alcune persone sapessero il giorno in cui erano nate non significa assolutamente che lo festeggiassero; come già accennato, il cristianesimo non era molto favorevole a questa usanza. I motivi erano tanti e tutti decisamente solidi: prima di tutto c’era il fatto che nel mondo pagano il compleanno veniva festeggiato in modo religioso e quindi ai primi cristiani la cosa non piaceva affatto, per loro le feste religiose erano solo quelle legate alla vita di Gesù.

E qui c’era il secondo aspetto, per i cristiani era molto più rilevante la morte, che sanciva la fine della vita terrena e l’inizio di quella spirituale, rispetto alla nascita; per questo dei santi si ricordava solo la data della morte, non certo quella del primo giorno di vita. Fanno eccezione solo tre personaggi fondamentali dei Vangeli: Giovanni Battista, Maria e ovviamente Gesù, per i quali è ricordata e celebrata anche la nascita. Ma proprio la centralità di queste figure è tale da impedire a qualunque altro cristiano persino di avvicinarsi al loro modo di rappresentare la propria vita terrena



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(Marco Polo, ritratto del XVII secolo)


Poi c’era il problema dell’età: conoscere la propria data di nascita, non significa conoscere anche l’anno in cui si è nati. Ma la questione era ancora più profonda; oggi per noi è naturale aggiungere una candelina sulla torta ogni anno, ma questo, se ci pensate, è il frutto di un’idea estremamente moderna del tempo e della storia, che potremmo definire lineare. Senza scomodare Sant’Agostino, fino a pochi secoli fa il tempo non veniva visto in questo modo, ma era piuttosto un processo circolare, nel quale le stagioni si ripetevano sempre uguali a sé stesse e del quale, in ogni caso, l’uomo non era padrone.

A questo proposito non può non sorprendere la minuziosa descrizione della festa di compleanno del Qubilai Khan che ci fornisce Marco Polo nel Milione; il famoso mercante veneziano è palesemente stupito di dover assistere a una festa della quale non capisce assolutamente il senso.

Marco Polo scrive alla fine del Duecento e bisognerà attendere ancora parecchi secoli per vedere anche in Europa qualcuno che festeggia il proprio compleanno, pur se in tono minore rispetto al re dei Tartari. I primi genetliaci in Europa verranno festeggiati tra la fine del ‘700 e l’inizio dell’800. Inizialmente questi piccoli momenti conviviali erano dedicati solo ai bambini, passati i sei o sette anni si smetteva di ricordare il compleanno; proprio per questo, per il fatto di essere un’esclusiva della prima infanzia, il compleanno in Europa si caratterizzò subito per la presenza di dolci e di luce. La combinazione tra una torta e una candela pare sia stata molto precoce in queste feste, che, ovviamente, erano riservate solo ai figli della nobiltà e successivamente anche dell’alta borghesia.

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L’ idea di aggiungere una candelina per ogni anno compiuto, invece, arrivò un po’ dopo, in particolare quando l’età del festeggiato cominciò ad alzarsi. Il primo ad aggiungere una candelina per ogni anno pare sia stato Goethe, il quale dall’età di diciotto anni, quindi nel 1767, prese l’abitudine di festeggiare il compleanno con una piccola festa in famiglia, che il poeta annotava nel suo diario. Ma solo qualche anno dopo fa la sua comparsa la torta a fine pasto. Le candeline, infine, arrivano nel 1802, quando il grande scrittore tedesco è a Roma e lì gli viene portata una torta con 53 candeline, esattamente il numero di anni che sta compiendo.

In realtà, non sappiamo se Goethe avesse davvero inventato questo rito o l’avesse imitato da qualche amico o conoscente che lo praticava già in precedenza. Del resto, non sappiamo nemmeno se questa idea sia venuta al festeggiato o al suo ospite romano, potremmo perfino azzardare che la tradizione della torta con le candeline sia un’invenzione italiana, romana per la precisione.

Di certo si tratta della prima testimonianza sicura per quanto riguarda questo modo di concludere una festa di compleanno, che, come ben sappiamo, ormai è un classico in tutto il mondo. Così come è un classico far corrispondere il colore azzurro ai maschi e il rosa alle femmine. Ma anche in questo caso si tratta di un’evoluzione recente e dalla storia abbastanza tormentata. Fino alla fine del Settecento, infatti, il colore dei bambini era il bianco, indipendentemente dal genere; mentre per gli adulti era abbastanza normale che gli uomini si vestissero di rosa e ancor di più che le donne indossassero qualche indumento azzurro, perché tradizionalmente era il colore del velo di Maria.


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(Louisa May Alcott)


A metà Ottocento in Francia si diffuse la moda di aggiungere un nastro rosa al vestito delle bambine e uno azzurro a quello dei bambini, come annota Louisa May Alcott nel romanzo “Piccole donne”, pubblicato nel 1868. Ma evidentemente si trattò di una moda abbastanza effimera, dato che all’inizio del Novecento l’uso si era completamente ribaltato: nelle riviste specializzate in moda infantile si ribadiva più volte come il rosa fosse il colore più adatto per gli abiti dei maschi e il blu per le femmine; l’idea di fondo era che il rosa fosse un colore più deciso, mentre il blu, come già in precedenza, era associato al velo di Maria.

Nel periodo tra le due guerre mondiali la moda infantile non sembra avere una linea definita; i colori si alternano senza 0un’identificazione specifica sulla base del sesso. È solo negli anni ’50 che le cose prendono una direzione netta. In realtà è il rosa che diventa il colore femminile per eccellenza, con l’automatica conseguenza che l’azzurro diventa il colore dei maschietti, ma la moda inizialmente si concentra solo sull’abbigliamento e sugli oggetti destinati alle bambine. Lo stesso lancio della bambola Barbie, nel 1959, consoliderà il rapporto stretto tra il colore rosa e la femminilità.

Anche se il movimento femminista negli anni ’60 e ’70 metterà polemicamente in discussione questa relazione cromatica, negli anni ’80 la forza del marketing spazzerà via ogni residua resistenza. In particolare dopo la diffusione delle ecografie prenatali, che permetteranno ai genitori di conoscere in anticipo il sesso del nascituro, l’abbigliamento infantile unisex scomparirà definitivamente dal commercio e non solo i vestiti, ma tutta l’oggettistica per i bambini proporrà il colore azzurro per i maschi e il rosa per le femmine. Anche la torta dei due gemelli del tavolo qui a fianco.



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