Li ho incontrati nel blues di una domenica sera d’autunno - freschino, la giacca nella quale stringersi, il pensiero al lunedì - sul vecchio tram. Sono saliti - lei ha fatto un po’ fatica su quei benedetti gradini così alti - si sono stretti uno all’altro, hanno cominciato a chiacchierare fitto ed io a spiare la vita degli altri. Direi pugliesi dalla pronuncia delle vocali, il ragazzo con gli occhiali e l’aria sveglia, la mamma un po’ appesantita ma con un filo di trucco e gli orecchini di perle, il papà ancora sulla soglia di un maturità che non si rassegna a inoltrarsi nella vecchiaia. Io li ho riconosciuti: cambiano i luoghi, per molti di noi sono o sono stati meno domestici, figli nomadi ci hanno portato in giro per l’Europa e per il mondo, non così tanto però cambiano i sentimenti. L’ho riconosciuta quella mamma, le scarpe comode messe nel trolley alla partenza perché si camminerà a lungo nella nuova città del figlio e non bisogna mai dire di essere stanche, ma anche il foulard carino e un gioiello, perché incontrarsi dopo il tempo della distanza è sempre un po’ festa. Lo conosco quel papà che cerca di riportare a sé e alla propria vita gli elementi di quella nuova del figlio: vedi questi sedili, quando nel ‘60 sono andato giù a Trapani i treni erano proprio così, c’erano ancora le littorine... E ho guardato con simpatia quel figlio giovane che raccontava, pazientemente spiegava, rassicurava: dal lunedì al venerdì c’è la mensa, poi con gli altri cuciniamo o ordiniamo, almeno una volta alla settimana mangiamo bene, non ti preoccupare. E quando uscite la sera come fate, vedi lì in fondo c’è Porta Venezia e ora ci passiamo, dividiamo il car sharing, ma se prendete la multa dividete anche quella?, i miei amici sono bravi, state tranquilli... E i genitori, quelli sul tram e tutti gli altri come loro, a mostrarsi sereni, a dirsi ed essere contenti della nuova vita - bravo questo figlio, in gamba questa ragazza che va - dei nuovi posti, delle nuove città: anche alla vista di un cavalcavia buio di Londra che bisognava passarci per forza per tornare a casa, anche in una periferia non proprio tra le più accoglienti, anche in un supermercato scalcagnato, salvo poi - soprattutto le mamme - cercare, timidamente o meno, di dare una mano, dai che ti sistemo la stanza, dai che facciamo la lavatrice e dividiamo i colori, dai che ti lascio qualcosa di pronto e te lo surgeli.
SFOGLIA IL TACCUINO DI AGNESE
Sono scesa dal vecchio 33 alla mia fermata e li ho silenziosamente salutati sperando il meglio per loro, per quel figlio che comincia l’università, per quei genitori che hanno fatto una scommessa costosa da tanti punti di vista ma piena di futuro: se là fuori ci sono i grandi guai della storia grande a oscurare i pensieri di tutti, ci sono anche i fili delle nostre vite che si intrecciano in nuove forme, in dimensioni inedite, spostando la linea del nostro orizzonte un po’ più in là. Vicino e lontano, l’eterno movimento dell’accompagnare e del lasciare andare. Con tutte le incognite, gli inciampi, le allegrie, le andate e i ritorni, e i cambiamenti.
Tornata a casa, ho cercato sul desk del mio computer un oggetto particolare: dei molti modi - e, garantisco, ne ho praticati e visti a bizzeffe nella mia ed altrui esperienza di genitore ‘a distanza’ - di accompagnare un figlio o una figlia che parte questo ha dalla sua un’originalità divertente e affettuosa. Scritto e disegnato a mano poi, e ditemi se già solo questo non faccia del taccuino di Agnese - di ciò infatti si tratta - un gioiellino.
Lo sfogli virtualmente e immagini l’autrice a pensare a come dare una mano a distanza, vedi sopra, a quel figlio che parte per l’Erasmus: figlio come tanti figli, diciamo carente sotto il profilo dell’economia domestica e chissà che combina, pensa la mamma, ora che sarà lasciato a se stesso. E dunque per evitare l’orgia di pizze surgelate e pasta al tonno, eccola mettersi al tavolino, pennarelli colorati e fogli, e ragionare: inutile andare sul troppo complicato, a rischio di essere pesantemente ignorate le ricette a base di verdure e affini di colore verde, meglio allora stare sul classico. Ecco il terzetto servito, spiegato e disegnato: si comincia con il risotto alla milanese ( beh, sapore di casa) tre pugni a testa e non sbagli, annota, perché, diciamolo, meglio essere precise altrimenti resta semidigiuno o mangia riso scotto per tre giorni. Le dosi valgono per ogni risotto, segnala precisa, e nella frase si annida una speranza credo malriposta: che il fanciullo, una volta appresa la tecnica base (il burro caldo ma non troppo, la cipolla a fettine) sperimenti, proceda a variazioni, metta al lavoro la creatività. Dunque risotto sia e poi frittata. Facile a dire, qui non ci si arrischia neanche a consigliare di girarla per evitare il disastro dell’uovo che invade fornelli e piastrelle, e, ti prego, tienilo basso quel fuoco così prima o poi la sfanghiamo anche con la seconda prova. Alternativa proteica per figli in crescita di un certo appetito? Scaloppine o cotolette che però, va spiegato, non nascono come tali ma hanno origine da un petto di pollo. E il taccuino tocca allora il suo vertice filosofico andando all’essenza del petto di pollo per come esso si presenta nel banco frigo del supermercato e come probabilmente il figlio mai ha visto prima: cicciotto, in due parti, con l’ossicino in mezzo. Soccorre il disegno con tanto di tratteggio rosso e blu sul quale operare il primo taglio per poi ricavarne sei fette. Immagino Agnese che, alla fine si dice da sola che così è troppo complicato e corre ai ripari: ‘Compralo già a fette e non se ne parli più’. Dosi precise, spiegazioni minuziose (due uova, latte poco, olio anche di semi, pepe se ce l’hai..), e che il dio della cucina sia con te, figlio mio.
Non è finita qui: l’altra grande prova alla prima uscita di casa di pargoli, diciamolo, un po’ viziati è senza dubbio il momento del bucato. Che molti rimandano sine die: in una visita a Londra a casa del mio secondogenito, impensierita da un odore sospetto che non andava via neanche con ore di arieggiamento dei sette metri quadri scarsi della sua stanza, ho alla fine scovato il colpevole in un copripiumino che giaceva appallottolato da chissà quanti mesi in fondo alla cesta, nella suprema indifferenza del suo proprietario. Agnese ben lo sa e quasi commuove il livello di dettaglio cui arriva nel descrivere le fasi dell’impresa bucato: quanto detersivo, come strizzare, quando una maglietta si può definire sciacquata, come stenderla ai fini dell’autostiro. Per poi passare al vero salto di qualità: la lavatrice, questa sconosciuta. Perché lì si va di gradi, di cosa si lava come, di colori, detersivo, eccetera eccetera. Fino all’ultima, scritta in stampatello perché se la fissi ben in testa, accorata supplica: NON MESCOLARE MAI I BIANCHI CON I COLORATI.
Rido, cara Agnese e penso che il decalogo del bucato potrebbe servire anche a molti mariti. Rido e un po’ mi intenerisco: ora che sono nella fase avanzata dell’esperienza di mamma a distanza e mi sono guadagnata un master sul campo tra pacchi spediti, ricerca case, segretariato vario, aerei e treni in giro per l’Europa, ora che ci sono stati andate e ritorni e non so più quanti traslochi, il taccuino che hai messo in valigia a tuo figlio mi riporta ai primi tempi e alle prime partenze. Proprio come quei genitori incontrati in una sera d’autunno sul 33, proprio come la me stessa di allora che lasciava il ragù surgelato e una candela profumata sulla scrivania: perché mangiassero qualcosa di caldo e di buono, perché mi mandassero un bacio, da lontano.