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Il rascismo
di Putin

di ANNA DI LELLIO
(immagini da pixabay)

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Questo venerdì Mosca ha confermato che i missili a lunga distanza ed alta precisione che hanno distrutto la fabbrica di armi Artyom nel centro di Kyiv sono stati lanciati giovedì sera durante la visita nella capitale ucraina del segretario generale dell’ONU António Guterres. Se l’obiettivo è certamente legittimo, perché militare, non lo è la noncuranza delle possibili conseguenze, dato che la fabbrica è situata nel centro della città. È stato colpito infatti anche un edificio residenziale di 25 piani, causando la morte della giornalista e produttrice di Radio Free Europe/Radio Liberty, Vera Gyrych. Ma ancora più grave è la decisione di colpire Kyiv proprio durante la visita di Guterres, appena arrivato lì dopo un fallimentare tentativo di parlare di pace con Putin.

Il fatto non mi ha sorpreso. Mi ha ricordato invece una dinamica simile, poco più di venti anni fa. Allora si trattava del Kosovo. Come Putin a Mosca, a Belgrado il presidente serbo Slobodan Milošević riceveva processioni di leader occidentali inutilmente affaccendati a fermare la sua indiscriminata repressione della guerriglia separatista albanese, perché la sua counter-insurgency massacrava più civili che combattenti. Era il 1998. Certamente ci sono differenze. Allora nessuno andava in Kosovo, restavano a Belgrado, e quindi non rischiavano di essere bombardati. Ma Milošević, come Putin, usava i colloqui diplomatici per prendere tempo e guadagnare terreno nel teatro della guerra, e per umiliare i suoi interlocutori.

Nel marzo del 1998, fu il turno di Robin Cook, ministro degli esteri britannico, che incontrò Milošević per conto dell’Unione Europea. La visita non portò da nessuna parte, perché Milošević si disse intenzionato a sradicare i “terroristi” dal Kosovo, ma si svolse nel clima di congenialità al quale il presidente serbo aveva abituato i suoi ospiti diplomatici dai tempi dei massacri in Bosnia. Cook scoprì solo sulla via di casa che durante la sua visita Milošević aveva sferrato un feroce attacco contro una famiglia di guerriglieri separatisti albanesi a Drenica, la regione centrale del Kosovo e cuore della resistenza, e massacrato, tra gli altri, 14 minori. Cook si sentì preso in giro e protestò, ma intanto da un conflitto a bassa intensità in Kosovo si era passati alla guerra.

Nell’autunno dello stesso anno, a Belgrado si recò la NATO, per essere precisi il generale americano Wesley Clark e il generale tedesco Klaus Nauman. Firmarono, con Milošević, un accordo di tregua e l’impegno a non massacrare più civili. Fu solo durante il banchetto per celebrare l’accordo che Milošević, dopo qualche bicchiere di rakija, disse ai suoi ospiti che aveva in programma una soluzione finale per gli Albanesi, e che nella regione di Drenica la Serbia li avrebbe uccisi tutti, come fece subito dopo la liberazione del Kosovo dai Tedeschi nel 1945.

Faccio queste associazioni senza alcuna intenzione di sollecitare un intervento armato come poi avvenne in Kosovo, ma per riflettere invece su cosa intendiamo quando parliamo di negoziare la pace con Putin con i metodi diplomatici consueti: le visite continue, le telefonate, le preghiere, e gli enormi imbarazzi causati dalla sua maligna ostinazione ad affermarsi come il più forte attraverso l’umiliazione degli altri.

Milošević imbarazzò perfino la comunità di Sant’Egidio, che nel 1996, prima ancora che i separatisti albanesi sparassero il primo colpo di fucile, cercò di raggiungere un limitato ma importante accordo sull’educazione. Dal 1990 gli Albanesi erano stati espulsi da tutti i posti di lavoro e dalle scuole. Sperando di evitare il genocidio avvenuto in Bosnia, avevano organizzato una resistenza civile passiva sotto la guida di un irriducibile pacifista, Ibrahim Rugova, che al contrario di Zelesnky in Ucraina non voleva neanche sentir parlare di armare il popolo. E gli studenti andavano a scuola dove potevano: alle elementari, negli stessi edifici scolastici dall’altra parte del muro eretto dai Serbi per separare i loro bambini da quelli albanesi, ma per il resto nelle case, senza banchi e materiali, con libri fotocopiati se andava bene, e nessuno stipendio per gli insegnanti.

Ci provò la comunità di Sant‘ Egidio a trovare una mediazione con Milošević, dopo i fallimenti di luminari della diplomazia occidentale come Lord Owen, Thorvald Stoltenberg, Tadeusz Mazowiecki, e Elisabeth Rehn. I cattolici italiani erano riusciti a negoziare la pace in Mozambico nell’ottobre del 1992 dopo 16 anni di guerra civile. Che ci vorrà, pensavano, a riportare a scuola gli studenti albanesi? E un accordo lo ottennero nel 1996, tra grandi lodi alla forza del pacifismo. Peccato che l’accordo non fu mai rispettato dai Serbi, anzi, quando il movimento degli studenti albanesi cercò di entrare nell’università il 1 ottobre del 1997 (tra i leader di quel movimento l’attuale Primo Ministro del Kosovo Albin Kurti), fu ricacciato indietro con violenza dalla polizia e dagli stessi studenti serbi. Meno di due mesi dopo la guerriglia armata albanese, tenuta a freno per sette anni dai pacifisti, fece la sua prima apparizione pubblica.

Milošević fu fermato nei suoi piani omicidi dalla NATO, ma ciò fu possibile allora perché la Serbia era poco potente e la Russia troppo in ginocchio, economicamente e politicamente, per opporsi. Con Putin il quadro è diverso. Come Milošević, Putin è ugualmente impermeabile a qualsiasi preghiera e refrattario a qualsiasi autorità politica o morale, ma può continuare a uccidere, distruggere e farsi gioco dell’ordine internazionale. Diversamente dal Kosovo, dove a combattere fu una minoranza, in Ucraina l’intera popolazione abile civile è mobilitata nella resistenza. E così la NATO non interviene direttamente, ma manda sempre più armi quanto più le forze russe si rivelano di essere una tigre di carta. La guerra di aggressione russa è diventata, ora sì, una guerra per procura.

Il pacifismo è stato sconfitto anche questa volta. Per capire perché, bisogna vedere se si è fatto abbastanza per promuoverlo ma va capito anche con chi abbiamo a che fare. In un bell’articolo sul New York Times Magazine domenica scorsa, lo storico di Yale University e esperto di Ucraina Timothy Snyder ci dice che gli Ucraini hanno coniato un neologismo: рашизм (rascism), in italiano traducibile come “rascismo,” cioè fascismo dove invece della “f” iniziale c’è la “r” di Russia. Sbagliato dare del fascista a Putin? No, dice Snyder, anche senza contare il suo piano genocidario. Tutti gli elementi del fascismo ci sono: il culto del leader e dei morti, lo stato corporativo, il passato mitico, la censura, le teorie del complotto, la propaganda centralizzata, e ora una guerra di distruzione.

Gli Ucraini, dice Snyder, conoscono sia il russo che l’ucraino, cosa non vera per i Russi, e giocano molto con le parole e le assonanze. La promessa di una Oсвобождение (osvobozhdenie), liberazione in russo, è la stessa fatta agli Ungheresi nel 1956, ai Cecoslovacchi nel 1969, e ora agli Ucraini. Quando sentono questa parola, gli Ucraini pensano a зомбування (zombuvannya), o zombificazione, come la Z simbolo dell’invasione. A proposito della quale, una barzelletta che gira in Ucraina dice: Lo sai perché la Z è simbolo dell’invasione? Perché l’altra metà della svastica è stata rubata nel magazzino.



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