“A Mosca, a Mosca” era la battuta, presa in prestito da “Le tre sorelle” di Cechov, che più spesso ricorreva in ufficio nei giorni di preparazione di una trasferta per lavoro in quella che allora era ancora la capitale dell’Unione Sovietica.
Era il febbraio del 1990 e, in occasione di un gemellaggio tra un’istituzione milanese e una moscovita, stavo per far parte di una folta delegazione composta da politici, funzionari e artisti che, secondo un calendario concordato con gli amministratori russi, dovevano rappresentare il nostro territorio in quelle terre lontane.
I preparativi erano durati mesi e negli ultimi tempi si erano fatti persino frenetici, sempre con la massima attenzione alle spese che avremmo dovuto affrontare, senza la minima certezza di ciò che i “colleghi” sovietici ci avrebbero garantito al nostro arrivo.
Si era allora deciso che a rappresentare il nostro territorio ci sarebbero state ben quattro mostre d’arte provenienti da vari musei del territorio, tra cui una esposizione d’arte sacra che avrebbe trovato collocazione presso il Monastero di Zagorsk (che oggi si chiama Sergiev Posad), luogo famoso nel mondo per le opere di Andrej Rublëv.
Per lo spettacolo, si era deciso di affidarci alla musica, per superare almeno in parte le difficoltà della lingua che il teatro, a esempio, avrebbe comportato.
Musica leggera, giovanile rappresentata da due artisti che all’epoca riscuotevano un certo successo almeno in Italia, oltre che da un eccellente gruppo di musica popolare lombarda.
Avevamo anche fatto un tentativo, anzi fui io stesso a farlo, di coinvolgere un’artista molto importante che a Mosca era molto nota, ma non ci furono le condizioni logistiche, diciamo così, per mandare in porto il progetto.
Febbraio 1990, pochissimi mesi dopo la caduta del muro di Berlino. Sapevamo che a Mosca avremmo conosciuto gli effetti della perestrojka di Michail Gorbacëv e della prossima e attesa fine di un’esperienza che, nel bene e nel male, aveva caratterizzato oltre settant’anni di vita non solo dell’Unione Sovietica ma del mondo intero.
Stavamo dunque per essere testimoni della caduta di un impero che aveva riempito pagine e pagine di storia economica e sociale, influenzando movimenti di pensiero e non solo, coinvolgendo intere nazioni ed espressioni politiche che sembravano destinate a durare perennemente.
Il viaggio con un aereo di linea della Aeroflot non fu certo tra i migliori effettuati ma, con qualche scomodità, ci trovammo dopo poche ore nel cuore della grande madre Russia.
Quadri e oggetti per allestire le mostre viaggiarono via terra, un tir portò la strumentazione musicale, mentre anche qualche artista, che non amava il volo, arrivò per treno, raccontando poi di avventure mirabolanti lungo i circa 2300 chilometri percorsi per una cinquantina di ore di durata del viaggio.
Gran parte della delegazione trovò alloggio in quell’enorme albergo per stranieri che era il Rossija Hotel, a poche decine di metri dalla Piazza Rossa e di San Basilio.
Un albergo spaventosamente immenso. Costruito su un’area di 150x250 metri, aveva dodici piani, quasi 3200 camere oltre a 250 suite, e poteva ospitare sino a 5300 persone, così almeno dicevano le guide di allora.
Inaugurato nel 1967, nel 1990 era già ai limiti della fatiscenza, sembrava un’enorme caverna in cui i rumori erano attutiti da chilometri e chilometri di moquette dal colore indefinibile, lungo la quale erano passati centinaia di migliaia di visitatori, guardati a vista, all’incrocio dei corridoi, dalle dejournaie, quelle signore che prestavano servizio sedute su rigidi sedili, disponibili a fornire anche qualche informazione, purchè si avesse padronanza della lingua russa - e non era il nostro caso - oltre a favorire anche il traffico di commerci vari su cui è opportuno stendere velo pietoso.
La leggenda voleva che le varie ali dell’albergo fossero sotto il patronato di mafie diverse. Si diceva di quella armena e di quella georgiana, contrapposte tra di loro, ma anche solidali nel gestire e proteggere gli affari che in quel luogo avvenivano.
A me venne assegnata una stanzetta a un piano intermedio, rivestita interamente di legno scuro, con una finestra il cui vetro non era mai stato pulito probabilmente dal 1966, che dava sulla sottostante Moscova.
Mi teneva compagnia notturna un topolino che doveva avere tana sotto il mio letto. Quando usciva dai suoi alloggi, cercava cibo da mettere sotto i denti e qualche briciola di biscotto l’ha rimediata anche da me.
Dovevamo allora rendere fruttuosi quei giorni di permanenza a Mosca e quindi ognuno di noi, parlo della categoria dei funzionari, venne affidato a un accompagnatore russo per svolgere le varie mansioni.
Il complesso di musica etnica venne immediatamente indirizzato nelle cittadine satelliti di Mosca dove tenne, con grande successo, i propri concerti di musica popolare. Avremmo rivisto i suoi componenti solo al giorno del rientro in Italia.
Gli allestitori si misero subito all’opera per garantire l’agibilità delle mostre, non sempre ospitate in spazi adeguati.
Chi seguiva gli spettacoli musicali (serali) venne scortato in un teatrone anonimo quanto periferico dove i nostri musicisti si sarebbero esibiti per alcune sere di fila. Ad accompagnare i nostri rocker, i russi ebbero la brillante idea di far intervenire un loro cantante che al centro del suo repertorio aveva la... Macarena.
Esperienza frustrante per i nostri, sia per la scarsità del pubblico che per la totale indifferenza della città nei loro confronti. Come se nessun moscovita, o quasi, sapesse che erano presenti in zona artisti di un certo peso, uno dei quali aveva persino vinto il Festival di Sanremo.
O meglio, il disinteresse dei moscoviti venne in parte superato in occasione di un paio di concerti che si tennero in provincia dove il numeroso pubblico si dimostrò molto più caloroso, accogliente ed educato.
La città era sicuramente più distaccata e altera delle sue periferie.
Al di là di occasioni istituzionali, un incontro sulle politiche economiche delle due amministrazioni, con il senno di poi un esercizio di inutile bla bla, la visita al Cremlino, l’invito nella bellissima sede dell’Ambasciata d’ Italia, riuscimmo a muoverci nella città, visitandola sempre in piccoli gruppi, con l’ausilio di un interprete italiano. Prendemmo metropolitane, visitando alcune stazioni come la Majakovskaja di grandissimo fascino, taxi pubblici e privati su cui era d’obbligo pagare in valuta estera, passeggiare sulla Piazza Rossa dove alcuni di noi vennero invitati a gesti a spegnere le sigarette perché il luogo era sacro e il fumo vietato.
La piacevole passeggiata lungo la via Arbat, ricca di case d’epoca e di ristori vari, oltre alla offerta di mercanzie varie, soprattutto orologi Raketa e caviale a ottimo prezzo, fu segnata da un simpatico episodio di cordialità.
C’eravamo spinti all’interno di un mercato alimentare per cogliere, se possibile, gli umori del cittadino comune, spinti forse da eccessiva curiosità, un macellaio all’opera su un misero pezzo di carne ci abbaiò contro una frase che il nostro interprete si prodigò nel tradurci all’incirca con:” Mettetevi in fila, stronzi”.
Ma indubbiamente ce l’eravamo cercata.
Come forse c’eravamo cercati anche quei ragazzi che ci chiedevano di comprare per loro sigarette estere e liquori nel Berioska che stava poco fuori dal Rossija, dove era possibile comperare di tutto purchè provvisti di passaporto straniero e valuta estera.
Non ci risparmiammo neppure una visita ai Magazzini GUM sulla Piazza Rossa dove avremmo potuto acquistare all’occorrenza set completi di reggiseni color carne, taglia ottava.
In un altro grande magazzino fummo invece tentati di acquistare un mestolo di cucina d’acciaio, era per altro l’unico oggetto in vendita insieme a migliaia di esemplari tutti uguali tra di loro.
Ci spingemmo anche a casa di uno degli interpreti russi che viveva in periferia, nei pressi dello stadio di una delle squadre di calcio della città, di cui apprezzammo la gentile accoglienza e a cui non pareva vero di poter parlare con cittadini stranieri. Aveva il mito dell’Occidente ed era curioso di conoscere tutto ciò che succedeva oltre cortina (si chiama ancora così). Il suo sogno era abbandonare l’Unione Sovietica e chissà se ci è mai riuscito.
Tutti coloro con cui avemmo modo di parlare non formalmente dimostrarono un certo disprezzo per Gorbacëv e della sua politica, con una più che esplicita nostalgia del tempo passato.
Anche da quelle parti il leitmotiv era: “Si stava meglio quando si stava peggio”.
In città il clima era gelido, galleggiava su tutto e su tutti un odore diffuso di cipolla che scoprimmo presto essere dovuto agli effluvi della benzina. Sarà banale dirlo ma i moscoviti che incontrammo, se non tutti molti, sembravano spaventati, tristi, rassegnati, diffidenti, ostili, rancorosi.
Ricordo la fila chilometrica all’esterno del McDonald che era stato appena aperto in città, ricordo con emozione le icone dipinte da Rublëv nel Monastero della Trinità di San Sergio.
Ricordo la passeggiata lungo il sentiero principale del Parco Izmaylovo lungo i cui bordi i cittadini di Mosca mettevano in vendita piccole ricchezze domestiche. Icone scurite dal tempo e dai fumi delle cucine, soldatini di piombo, gioielli di nessun valore, lattine di bibite americane, accompagnati dal jazz universale di orchestrine improvvisate. Là incontrammo mentre passeggiava Enzo Biagi che era a Mosca per un servizio giornalistico.
Ricordo la sensazione di angoscia nello sfiorare la vita di una città così complessa, così enorme, così indecifrabile. Senza avere né diritto né competenza per esprimere giudizi, eravamo stati marginali testimoni di un cambiamento in atto, doloroso per quanto impossibile da interpretare, comprendere, razionalizzare.
Noi stessi eravamo piuttosto confusi, testimoni, se non complici, di un’esperienza “politica” di spessore misero, probabilmente persino inutile e dispendiosa.
Alla partenza da Mosca, in fila alla dogana dell’aeroporto, accaddero alcuni episodi di dubbio garbo.
I doganieri russi sequestrarono tutto ciò che non era stato regolarmente acquistato nei negozi di stato: una piccola strage di orologi e di scatolette di caviale. Sostennero poi che avremmo dovuto pagare una sorta di tassa perché il peso complessivo dei nostri bagagli era di gran lunga superiore di quello da loro stessi verificato all’ingresso in URSS. Mi sembra che poi tutto si risolse con il versamento di un obolo.
Il clima piuttosto teso si stemperò quando un componente di una nostra band musicale fece impazzire il metal detector: immediatamente perquisito dagli agenti, aveva addosso decine di orologi nonché alcune confezioni di caviale.
Le stesse guardie doganali, nel sequestrargli tutto quel ben di dio, scoppiarono in una sonora risata.
L’addio a Mosca a bordo dell’aereo che ci riportava a Milano fu, confesso, una piccola liberazione da un clima di oppressione silente ma diffusa che congelava tutto insieme ai proverbiali rigori dell’inverno russo.
Quello che poi accade a quel paese fa ormai parte della storia che, negli ultimi tempi, si sta manifestando con particolare drammaticità.