Con “L’arma dell’inganno”, protagonista Colin Firth, l’Inghilterra è appena tornata a proporre orgogliosamente e a stretto giro la Seconda Guerra Mondiale, dopo “The imitation game” e “L’ora più buia”. Un vero e proprio filone, nel segno dello spionaggio, di astuti giochi d’intelligence sul filo del rasoio, dell’immancabile onnipresente Churchill, di uomini di Sua Maestà devoti alla causa e flemmaticamente impavidi contro il Nemico. In Cina, dal mondo che qua in Occidente ci viene ammannito sempre più acriticamente come luogo ostile, ribattono col blockbuster assoluto “The Battle at Lake Changjin”, soldati infrangibili di Mao in aiuto alla Corea contro l'aggressione degli Stati Uniti, negli anni dal ’50 al ’53. La cinepresa annusa l’aria dei tempi (quel buon odore di napalm la mattina, cfr “Apocalypse now”), crea o rafforza senso comune.
Salubremente, fra tanto cinema che indossa patriotticamente l’elmetto - e senza parlare di Hollywood, fucina sempre aperta di minacce aliene, complotti sventati, megameteoriti comunisti, cyberguerre, prodezze belliche dei “nostri ragazzi” in nome e per conto del mondo libero - si può vedere “Un eroe”, che più anti-eroe non potrebbe, del maestro iraniano Asghar Farhadi, film premiato a Cannes un anno fa e ora disponibile su Sky. Con una poetica realista delle piccole cose, dei risvolti intimi e universali, uno sguardo implacabile ma “placido” sul train de vie iraniano, “Un eroe” ha segnato, dopo un paio di lavori girati all’estero meno riusciti, il ritorno prepotente e contemporaneo di Farhadi nel suo Iran e nell’empireo del cinema d’autore, forte anche dei due Oscar vinti con “Una separazione” nel 2012 e “Il Cliente” nel 2017. In occasione di questo secondo “trofeo” il regista, assimilato in tutto e per tutto a un malefico ayatollah, non era stato ammesso da Trump alla premiazione, una castroneria in seguito corretta e però Farhadi sul palco degli Academy Awards non aveva voluto salire, consegnando al pubblico poche parole scritte: “Mi dispiace non essere con voi, ma la mia assenza è dovuta al rispetto per i miei concittadini (…) che hanno subito una mancanza di rispetto a causa di una legge disumana che ha impedito l'ingresso negli Stati Uniti agli stranieri. Dividere il mondo fra noi e gli altri, i ‘nemici’, crea paure e crea una giustificazione ingannevole per l'aggressione e la guerra e questo impedisce lo sviluppo della democrazia e dei diritti umani in paesi che a loro volta sono stati vittime di aggressioni. Il cinema può catturare le qualità umane e abbattere gli stereotipi e creare quell'empatia che oggi ci serve più che mai”. Parole che dicevano attaccamento radicale per la sua arte e per il suo Paese.
Senza effetti speciali, fantasmagorie sussultorie e semplicismi affettivo-emozionali: buoni/cattivi, amico/nemico, ma con una sapienza rara nell’incastonare luoghi ed emozioni, “Un eroe” è, tra mille altre cose, anche un film patriottico, anzi ostinatamente patriottico. Perché Farhadi è tornato a girare in Iran, a “bersi” quella luce e quei volti che lo nutrono, a essere testimone critico del suo Paese vulnerato e vitale in questi tempi segnati dalla teocrazia di un sistema moralisticamente occhiuto, anchilosato dalla burocrazia e da un’architettura statuale insieme surreale e barocca, ossessionato - e duramente sanzionato - dal Grande Satana occidentale. Un mondo conservatore con ferocia e che conosce egualmente la pervasività e la vis manipolatoria dei media. Il film, girato a Shiraz e scritto in modo mirabile dallo stesso regista con una secca tenuta narrativa senza falle, si ispira a una classica storia da povera gente (non è mancata a Farhadi l’accusa di aver plagiato il documentario di una sua ex allieva) e parte dall'incontro fortunoso - molto in stile “Mille e una Notte” - con una borsa ricca di monete d’oro. Come in una favola, destinata a diventare favolaccia.
Rahim Soltani (Amir Jadidi) è un pittore d’insegne e calligrafo, separato dalla moglie che gli ha mollato il figlio Hossein, balbuziente e autoconfinato nei giochini da smartphone. Lo incontriamo all’uscita per un permesso dal carcere, dov’è finito con pena triennale per un debito non onorato e non onorabile essendo il bel Rahim uno spiantato assai poco bravo negli affari. Un loser insomma, cui balena davanti agli occhi la svolta felice quando la sua nuova compagna di vita Farkhondeh (Sahar Goldoost) trova una borsa da donna col prezioso carico, l’ideale per restituire almeno parte del dovuto e scampare alle sbarre che il diritto islamico riserva ai debitori insolventi, secondo l’ottica risarcitoria della sharia. In un primo tempo incline a valersi del colpo di fortuna, Rahim decide di restituirlo e mette annunci qua e là. La legittima proprietaria si manifesta, la borsa è restituita e quel gesto degno d’un cuore puro vale al detenuto Rahim una lesta promozione a eroe virtuoso, una manna per i dirigenti del penitenziario, che “vendono” la storia di redenzione a stampa e tv, a maggior gloria delle virtù riabilitative della galera khomeinista, la stessa ove si è giusto verificato un caso di suicidio.
Lì comincia la peripezia. “Adottato” da un ente d’assistenza che a sua volta vuol appuntarsi una medaglia al valore, Rahim, ormai personaggio locale, potrebbe adesso usufruire dei denari raccolti per lui in una apposita colletta e di un lavoro che gli è stato riservato. Niente da fare, un funzionario della Prefettura, tenuto a vagliare il caso prima di aprirgli le porte di un impiego fisso, vuole le prove della donazione miracolosa: servono documenti, a chi è stata restituita la borsa? Montano sospetti, la peripezia diventa precipizio, vana è la caccia alla proprietaria per le vie di Shiraz, con Rahim accompagnato dal piccolo, struggente Hossein che stringe al cuore il diploma d'onore meritato prima dal padre e ora diventato inutile. L'esplicita, memorabile citazione di “Ladri di biciclette” è un picco di pathos e apre all'amaro finale. L’eroe è diventato reprobo, la sua reputazione, aspetto così cruciale in una società tradizionalista incardinata sul gruppo familiare, è in caduta libera. Anche se, per un benevolo gioco del destino, i soldi della famosa colletta verranno alla fine stornati da Rahim e consegnati a una madre con prole che così riuscirà a salvare il marito dall'esecuzione capitale (cronaca a latere: oltre 500 le condanne a morte eseguite nel 2016, anno di picco). È lei la proprietaria dell’oro, già l'ha venduto e sommando il ricavato al denaro della colletta si compie il miracolo.
“Mio padre non dice bugie”, implora il piccolo Hossein, povera anima dolce data in pasto alle telecamere e ai microfoni perché un bambino fa audience pure nel paese degli ayatollah. Società dei media e della pura conservazione convivono nel film con un senso di vinta fatalità e di perenne attesa-speranza in un refolo di libertà. Le donne, pur volitive reggitrici di casa, stanno al loro posto, semmai intercedono, placano liti e cucinano prelibatezze, Farhadi le mostra come può e sa: interiormente a nudo, esteriormente col chador pure tra le mura domestiche, secondo i canoni stretti della censura cinematografica iraniana. D’altra parte gli uomini quando si levano la maglietta ne mostrano una pudica seconda a celare il petto. Per Shiraz girano tanti bravi cristi, dal tassista ex carcerato che aiuta solidalmente Rahim alla responsabile dell’ente assistenziale, ai donatori della colletta. Sono gli infiniti rivoli umani che oliano la vita in un posto complicato e tutto e mille dettagli Farhadi sa sbalzare con tocchi di nuovo realismo, tanto vicini alla poetica di Ozu, “il più giapponese dei registi giapponesi”, ai suoi drammi della gente comune, al rapporto tra genitori e figli, alle piccole storie del quotidiano. Parliamo di Ozu, di un campione. E Farhadi, “il più iraniano dei registi iraniani”, gli sta degnamente, gloriosamente vicino.