L'Italia di ieri
e una piccola
saga al femminile
In un libro di Adelaide Amendola lo spaccato di più generazioni intorno a una casa-rifugio della provincia napoletana
Una recensione
di
ROBERTO ROSCANI
Per caso mi è capitato di leggere uno dopo l’altro due libri che più diversi non potrebbero essere. Il primo è stato il best seller dell’estate – il tormentone, si sarebbe detto di una canzone, ma ormai forse si deve dire anche dei libri – quel “Caso Alaska Sanders” su cui sarete sicuramente inciampati. Un brutto libro, pigro nella scrittura, narcisista – l’autore ne è un eroe-protagonista sotto poco mentite spoglie – con una trama inutilmente complicata, costruito per stupire con un finale dietro l’altro, ma alla fine davvero molto noioso.
Il secondo è il suo opposto: forse nelle librerie non lo troverete nei banchetti più in vista – l’editore è Novecento, casa molto sofisticata, non certo da grandi vendite – la trama, se è questo che cercate, quasi non c’è, nascosta sotto una sottile trina di memoria famigliare fatta di persone – non personaggi – cariche di vita. Le vite “banali” e quotidiane di un’Italia che era solo ieri, ma che ci sembra lontana. Una famiglia di una volta, con i genitori, i fratelli, le zie, i nonni, in una cittadina meridionale troppo vicina a Napoli per essere del tutto provinciale, ma anche troppo immersa in un tempo dove erano i parroci a decidere il destino dei loro fedeli per non esserlo del tutto.
di Adelaide Amendola
Novecento Editore
Euro 18,00
Il racconto si svolge all’interno di due, tre case – non è un particolare poco rilevante, le case contano molto, segnano periodi interi della vita, sono contenitori che danno vita a ricordi ed emozioni. L’autrice è Adelaide Amendola, è al suo primo romanzo che si intitola appunto “Romanzo familiare” – anche se la parola non è del tutto adatta, come non era adatta a “Lessico famigliare” di Natalia Ginzburg - perché di solito scrive saggi sui temi giuridici visto che di mestiere è Presidente di Sezione della Corte di Cassazione.
Dicevamo di una casa piena di gente e non è una esagerazione. Ci sono le figliocce di cresima, le domestiche – presenti e passate – i tanti famigli che in una cittadina meridionale e nella casa di un medico non mancano mai: i pazienti coi loro doni, i parenti coi loro problemi, una rete infinita gestita e curata quasi maniacalmente e altrettanto disordinatamente dalla madre. È la madre – a cui il libro è dedicato – il centro di un complicato mondo di relazioni e di sentimenti, con molto non detto: quante volte nel libro i rapporti si consumano proprio nei silenzi, nelle cose che si sono taciute, negli scarti sentimentali, negli allontanamenti mai espliciti, nelle sofferenze tenute nascoste, nelle timidezze, nella convenzione che ci son cose che si possono dire e altre no.
Il libro è il racconto che attraversa un tempo più lungo della vita dell’autrice, anzi che la tocca appena, che va indietro ai ricordi dei genitori e di chi li ha allevati. La madre – torniamo invariabilmente a lei – orfana affidata alle monache di Pompei e 'indicata' con la mano imposta sul capo dal parroco che accompagna i due genitori adottivi a scegliere la loro figlia. Una bambina non piccolissima alla quale viene tolto ogni possibile rapporto con la famiglia d’origine – una volta un fratello si presenta a casa ma le viene presentato come un figlio della balia – ma che viene immersa in un mondo di affetti e di sicurezza.
Non c’è la Storia intorno a queste vite che sembrano ricalcare modelli di comportamenti e di relazioni assunti da un passato immobile (“così si fa” è una frase che troverete spesso) in cui i genitori hanno sempre ragione. Solo qualche bagliore del Sessantotto sembra arrivare per mettere in crisi (ma non fino in fondo) questi dogmi. Nelle sue conclusioni Adelaide Amendola spiega di aver voluto scrivere per i propri figli, per restituire una radice familiare lontana, e forse per loro poco comprensibile, un intero mondo che non c’è più.
In realtà, proprio nelle ultime pagine – come se tutto quello che viene prima sia stato un tentativo di allontanare alcuni conti da regolare con se stessa o meglio di metterlo nella giusta prospettiva – vengono fuori i nodi affettivi e i dolori più sentiti. C’è la drammatica morte di una amata sorella il cui suicidio con una grazia per omissione quasi irreale (un paio di pantofole davanti a una finestra aperta che la madre raccoglie senza intuire cosa sia successo, e il grido del fratello che ha visto), la sua lunga malattia che deve aver segnato anni della giovinezza dell’autrice e della sua famiglia. C’è – soprattutto – il rapporto con la madre che non riesce a risolversi del tutto neppure quando, diventata adulta, cerca di spiegarlo alla stessa genitrice con una colta interpretazione della fiaba di Cenerentola. Per la madre tutto è stato naturale, tutto è stato così perché “così doveva essere”.
Il libro è colto (di una cultura solidamente tradizionale con tanti riferimenti alla letteratura russa, con tanto Proust e un po’ di Eduardo) scritto in una lingua bella e complessa in cui compaiono certi dialettismi che ascolterete sempre da un intellettuale napoletano o campano di quelle generazioni, quel parlare insieme forbito e familiare in cui ogni tanto, inattese, vengon fuori anche accenni a parole ed espressioni del mondo giuridico. È un libro che fa tornare vivi caratteri e persone - e non solo - di un mondo che può apparirci davvero lontano ma che è appena dietro le nostre spalle.
Non è una autobiografia – la scrittrice c’è pochissimo e nulla ci dice sui suoi sentimenti e sul suo vissuto extra-domestico –, è invece il ritratto di una famiglia larghissima, di un paio di generazioni, di una sterminata corte di co-protagonisti e soprattutto il ritratto di una fittissima rete di legami affettivi, sociali, di parentela in cui qualche volta è difficile anche raccapezzarsi (quante Mariette, Tettelle, Angeline, zii, zie e zi-zie…), una sorta di confusione in cui ci si muove tra drammi e allegria, tra le battute sarcastiche del padre e le sue arrabbiature. In cui emergono qua e là davvero delle intuizioni, direi quasi antropologiche, su quella società meridionale del nostro Novecento. Con un punto di vista molto femminile, che non è quello dell’autrice ma delle donne che l’hanno preceduta. Una sorta di dolorosa consapevolezza di ciò che comportava il ruolo delle donne in quella società, una pesante condizione di subalternità tramutata in una specie di saggezza che legge il mondo tutto chiuso nei ruoli familiari e di “conservazione della specie”, in cui gli uomini sono la parte più debole e delicata, quindi da proteggere.
Un bel libro, allegro e doloroso, non un esercizio di stile ma neppure semplicemente dettato dal bisogno di fare i conti con il passato.
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