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Afghanistan
vent'anni dopo

Quella lunga guerra
travestita da pace

Una recensione di
MARCELLA CIARNELLI

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Dolore, morte, distruzione. Un futuro da ricostruire. Speranze condizionate da una disperazione alla quale sembra impossibile poter sopravvivere con l’attualità del dramma che preme. Questo (e purtroppo tanto altro) è la guerra, un evento eterno con cui l’umanità continua con pervicace crudeltà a misurarsi. Da sempre in preda ad una immemore follia. E guerra è, e tale resta, anche quando l’ipocrisia dei governanti la camuffa con nomi accattivanti che evocano la pace, o la contrabbanda come una necessità inderogabile, o una operazione speciale.

Di questi conflitti travestiti da missione di pace parlano Massimo De Angelis e Giampaolo Cadalanu, solidi ed esperti inviati in materia per lunga esperienza anche sul campo, rispettivamente della Rai e di Repubblica, nel loro libro “La guerra nascosta. L’Afghanistan nel racconto dei militari italiani” edito da Laterza. Ci illuminano attraverso la narrazione dell’esempio forse più eclatante di questa mistificazione: il conflitto in Afghanistan appunto, di cui sono stati testimoni diretti.





Venti anni e una conclusione ingloriosa. Era stata presentata, l’azione in Asia, come una missione umanitaria e di peace-keeping contro i talebani. Ma alla fine tutto è com’era. Peggio. E ai soli italiani è costata 53 militari morti, con i quali va ricordata la giornalista del Corriere Maria Grazia Cutuli, e 723 feriti. Secondo i calcoli dell’Osservatorio Milex, il peso sui contribuenti italiani è stato di oltre 8,7 miliardi di euro, dei quali 840 milioni come contributo diretto alle forze armate afghane che, di fatto, si sono dissolte davanti all’offensiva finale dei talebani.

In Afghanistan la guerra, giustificata come azione necessaria contro il terrorismo, è andata avanti dal 2001 al 2021. L’hanno sostenuta nostri governi di centrodestra e di centrosinistra. Vi hanno partecipato forze dei carabinieri, dell’aeronautica militare, della marina e della guardia di finanza.

Il libro di Cadalanu e De Angelis scorre nel racconto di chi in quegli anni è stato testimone in prima linea e protagonista degli eventi. La gran parte dei militari nel raccontare ha dovuto rinunciare al proprio nome e fare uso di nickname che non ne consentissero il riconoscimento. Fonte Rondine, Cherry, Cervino, Lupo, Pantera, Falcon, Gufo, Aquila, e così via, prendono per mano chi legge assieme a chi ha potuto dichiarare la propria identità, e lo conducono sulle aspre montagne di una terra così lontana da casa, ostile e accogliente a seconda di quale prospettiva si usi. Una terra che doveva essere liberata e poi è stata abbandonata.





Nella nostra Costituzione, all’articolo 11, si dichiara che “l’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”. Il bilancio opaco del conflitto alla fine è anche conseguenza dell’ipocrisia di fondo che dette il via libera alla partecipazione dell’Italia ad una guerra e non solo ad un’operazione che i politici di allora giustificarono con la necessità di difendere un alleato Nato dopo l’11 settembre. In realtà l’Italia e gli altri stati aderirono all’operazione Enduring Freedom appoggiando l’iniziativa americana non autorizzata dall’Onu, in cui la Nato subentrò solo in seguito.

C’era Silvio Berlusconi al governo in quel 2001. Il ministro della Difesa era Antonio Martino, che non potè negare che quella avviata si presentava come “una missione ad alto rischio ma con intenti di pace”. Da subito fu sangue e morte. Al fianco dei piloti americani, gli italiani Lupi Grigi, decollati dalla portaerei Garibaldi, parteciparono a bombardamenti. 278 per la precisione. Fu istituita in tutta segretezza una Task Force selezionata tra i migliori elementi delle forze speciali di cui, con molto ritardo, fu ammessa l’esistenza dal governo. Da quelle fonti preservate dall’anonimato arriva la narrazione di una guerra vera e propria. Morti, feriti, innanzitutto. E poi tutte le conseguenze che un conflitto si porta appresso: violenze, ruberie, tradimenti, stupri, la voglia di arricchimenti smisurati e colpevoli.

Correspondence Album Cover


La guerra nascosta. - L’Afghanistan nel racconto dei militari italiani

Massimo De Angelis e Giampaolo Cadalanu

Laterza Editore Euro 19

Il tentativo di contrabbandare l’intervento in Afghanistan come una indispensabile operazione di appoggio alla popolazione e, quindi, di pace crolla miseramente leggendo le motivazioni ufficiali delle medaglie alla memoria e dei riconoscimenti che sono stati assegnati a quanti su quella terra hanno lasciato la vita o, insieme ad un pezzo di sé, anche una giovinezza spezzata. Vengono raccontati sì atti di eroismo da parte di chi ne è rimasto prima vittima. Ma sono parole che svelano la verità: non ci sarebbe stato bisogno di pronunciarle e scriverle se in Afghanistan si fosse svolta solo l’operazione di pace che accompagnava la narrativa dell’accettazione dell’impegno, indispensabile nella formula usata per non violare il dettato della Carta.

Sui modi e tempi della "guerra globale contro il terrorismo" gli Stati Uniti in tanti anni non hanno mai accettato di ridiscutere con gli alleati, a nessun livello. Nonostante dopo qualche anno molti dei partner avessero cominciato ad avvertire la necessità di distinguere innanzitutto il proprio operato dai fallimenti Usa ma anche avessero cominciato a confrontarsi sull’ipotesi di una possibile trattativa, gli americani avevano alzato un “muro invalicabile” - ricorda Massimo D’Alema, testimone diretto in quel 2006 in cui il centrosinistra andò al governo. “Il segretario di Stato, Condoleezza Rice non si limitava a riferire che Bush era contrario ma insisteva nell’affermare che gli Stati Uniti non trattano con i terroristi”.

“Si dice che il modo più sicuro per mentire sia quello di tenersi il più possibile vicini alla verità. Per i meccanismi dell’opinione pubblica è meglio ancora se la verità viene dichiarata su documenti ufficiali, ma curando che venga sottolineata il meno possibile” hanno scritto Cadalanu e De Angelis. E questa è stata la formula prescelta dai governi che si sono succeduti per giustificare un’impresa come quella cui erano stati destinati i militari italiani. Un modo che ancora offende chi ci ha rimesso la vita.





È andata com’è andata, lo sappiamo. Il conto pagato è stato salatissimo per un intervento che non è stato mai umanitario come era stato presentato, ma recuperato solo da atti di generosità personali come quella del giovane segretario consolare Tommaso Claudi che nelle ultime ore di presenza occidentale sul territorio assistette nel caos all’aeroporto di Kabul famiglie in fuga e bambini soli che dovevano raggiungere l’Italia operando con militari di varie nazionalità.

Quegli eventi ormai sembrano ormai destinati a far parte di una storia che molti non vogliono già più ricordare anche perché, amaro bilancio, non sono riusciti a trarne alcun forte insegnamento o, almeno, indicazioni e prospettive per il domani. Cosa fare perché non succeda più. E perchè i morti e i feriti possano recuperare la dignità dell’impegno svolto, quello vero. Cosa fare perché almeno qualcosa si salvi, e sopravviva nel futuro. Forte della consapevolezza che un mondo migliore è possibile che anche se il tuo diretto interlocutore, generale, soldato, sarebbe più propenso a negarlo.

“Qualche osservatore azzarda l’idea di un comitato che ragioni sulle 'lezioni apprese', perché le ingenuità e gli errori commessi non debbano ripetersi in futuro. Ma in Parlamento e nelle cronache - notano con giustificato pessimismo gli autori - l’Afghanistan è già un tema del passato”.




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