La voce
di Ajla
Una madre, una figlia
e l'orrore della guerra
Una recensione di
GABRIELLA DI LELLIO
Ci sono storie che rimangono attuali per anni come quella descritta nel libro “La voce di Ajla”, in cui si parla di immigrazione, di guerra e di esuli, e che è stato pubblicato appena prima dell’inizio della guerra in Ucraina. Le due protagoniste raccolgono tutta la sofferenza di tanti che hanno vissuto esperienze nei campi profughi. Donne che non scappano dalla povertà, ma da un trauma collettivo che si trasmette di generazione in generazione, anche quando c’è il silenzio. Una storia di segreti che non possono essere svelati.
La madre, Ajla, riesce a far crescere la figlia tra le ville pubbliche e i giardini di Parigi: verranno adottate da una signora francese che darà un cognome e un’istruzione alla ragazza. La narrazione si svolge a passo alternato tra Alina, la figlia, richiamata da New York dove lavora ormai come ricamatrice e affermata fiber artist, e Ajla, muta invece, ricoverata in ospedale in uno stato di catalessi. Si instaura un dialogo misterioso tra le due. La figlia è certa che sua madre possa udirla, perciò le parla. La madre, in un silenzio fatto di pensieri e incubi, le risponde. Attraverso i ricordi Alina riscopre Parigi e si ritrova a fare i conti con la sua infanzia e il senso di inadeguatezza che le impediva di condividere la propria vita con i suoi coetanei. Comincia, così, a collegare i punti della sua storia e a “cucire” le due Aline, quella del prima e quella del dopo.
Nella costruzione dei due personaggi entrano elementi inaspettati, come i lavori di ricamo e di tessitura. L’arte del cucito, legata al mondo femminile, diventa la metafora del ritessere la tela della vita in un viaggio indietro nel tempo. Del passato della madre Alina non sa nulla, ignora che la sua vita affonda le radici in una tragedia che le ha rubato tutto. Ajla, come decine di migliaia di donne e di uomini, ha subìto violenza sessuale durante la guerra e ha scelto il silenzio.
Maria Silvia Bazzoli, reporter, documentarista e ora scrittrice, allo scoppio delle guerre nell’ex-Jugoslavia, tra il 1992 e il 1995, seguì le vicende dei profughi e della loro accoglienza in Italia, lavorando come giornalista in Friuli Venezia Giulia e come volontaria allo sportello di accoglienza del comune di Udine.
“Era la prima ondata di immigrati che arrivava nel nostro paese contemporaneamente agli albanesi a Brindisi. La prima volta che l’Italia si trovava dinanzi a un’immigrazione importante” racconta. “Nel periodo dopo la caduta del muro di Berlino le caserme erano state svuotate, e il Friuli ce n'erano tante. Proprio lì, dove furono accolti i profughi, realizzai il mio dossier. Mi recai spesso nella caserma Monte Pasubio di Cervignano del Friuli, una delle più grandi, una città nella città in grado di ospitare migliaia di persone. Vent’anni dopo tornai in quella caserma per capire cosa fosse rimasto di questo passaggio imponente di essere umani.”
Lì la scrittrice raccolse innumerevoli testimonianze, tra le donne in fuga da un conflitto che aveva fatto del loro corpo un campo di battaglia, attraverso lo stupro etnico. Quella miriade di frammenti si ricompone in “La voce di Ajla”.
La voce di Ajla
Maria Silvia Bozzoli
Forum edizioni Euro 16,50
La spinta a scrivere viene dalla fragilità della povertà estrema, dal pensiero di tante persone che non hanno nulla da cui partire con l’immagine di due donne sedute sul marciapiede: la bambina Alina e sua madre Ajla. Le città di Parigi e di New York evidenziano la dimensione transnazionale dell’esilio.
Il libro tratta la ferita dello strupro di guerra, una ferita talmente grande da essere considerata una sorta di annientamento posticipato. Non a caso gli storici parlano di una memoria scissa tra la storiografia ufficiale e la storiografia delle guerre narrate dalle donne.
In quegli anni in Italia fu promossa una legge (390 del 92) che accoglieva tutti i profughi della ex-Jugoslavia come sfollati per motivi umanitari, dando il permesso di soggiorno e di lavoro con una particolare attenzione per i disertori e gli obiettori di coscienza. Il libro concentra l’attenzione sulle conseguenze dei conflitti nelle vite che ne hanno subito la brutalità. Non vuole trattare la storia collettiva di un popolo, comunque presente tra le pagine del romanzo, ma quella individuale e familiare di due donne.
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