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Un autunno
d'agosto

Massacri senza fine
dalla Lunigiana a Bucha

Una recensione di
SILVIA GARAMBOIS

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Quanto dista Bucha da San Terenzo Monti? Un nulla. Dall’Ucraina di oggi alla Lunigiana di ieri, un precipitare nella memoria. Lo stesso “brivido di pancia che cresce in piccoli fiotti, come onde via via più alte, fino ad arrivare alla gola”: la paura, l’orrore delle stragi di guerra, è la stessa. La paura di quello che non si conosce.

Agnese Pini, la direttrice della Nazione, del Giorno, del Resto del Carlino, di Quotidiano Nazionale (le testate del Gruppo Riffeser), l’unica donna in Italia ad avere un ruolo così importante nell’informazione, racconta come quel giorno del marzo 2022, davanti alle immagini sconvolgenti del massacro di Bucha (avvenuto giorni prima nel silenzio dei media, nell’ignoranza del mondo), ha deciso per la prima volta che era tempo di tornare dove era stata uccisa la sua bisnonna, Palmira Ambrosini, il 19 agosto del 1944. A San Terenzo Monti. 159 morti nell’eccidio nazifascista. Per vedere, capire, finalmente raccontare.



(Il museo che ricorda l'eccidio di San Terenzo Monti - foto da Lunigianaworld)


C’è il diario della cronista in “Un autunno d’agosto” (Chiarelettere, 245 pagine, euro 18). Le storie ascoltate da bambina. Le mail scambiate con il corrispondente della Nazione dalla Lunigiana, quel Roberto Oligieri il cui nome la fa sussultare – un nome troppo familiare -, che le scrive per congratularsi con la neo Direttrice (con la maiuscola) e si trasforma poi, pagina dopo pagina, nella guida complice in quella memoria. E poi i boschi, i prati, le pietre del paese, le rogge e i ruscelli, le improvvise pieghe dei sentieri, quel che furono e quel che sono. Il sangue, i morti, i cadaveri accatastati. I partigiani.

Correspondence Album Cover


Un autunno d'agosto
Agnese Pini
Chiarelettere Editore
Euro 18

Un libro in cui si mescolano in modo naturale piani narrativi diversi: c’è l’Ucraina, la foto della donna partoriente e ferita sulla barella, la bicicletta accanto all’uomo riverso sull’asfalto; c’è la memoria familiare della strage, la bambina che si è salvata nascondendosi tra i cadaveri; ci sono gli incontri professionali della giornalista, quello con Marco De Paolis, il magistrato militare che sessant’anni dopo aveva ripreso le fila di una storia dimenticata; c’è la famiglia di oggi, il fratello e la sorella che arrivano da un orfanotrofio peruviano; c’è la famiglia di ieri, la zia Angela strappata alla furia nazifascista per un “presentimento”; c’è il marmo candido di Carrara in mezzo al quale Agnese Pini è cresciuta. E su tutto incombe l’eccidio di tanti anni prima, così a lungo nascosto al mondo, infilato in mezzo a quei 695 dossier e alle 2.274 notizie di crimini di guerra chiusi in un armadio voltato al contrario, all’interno del Tribunale militare di Roma: l’Armadio della vergogna, come lo battezzò nelle sue inchieste sull’Espresso un altro giornalista, Franco Giustolisi, che dedicò la vita a quelle carte.

Pagina su pagina riemerge la storia di quell’angolo di Lunigiana. Le campagne attraversate da donne con le ceste in capo, i posti di blocco sulle strade bianche, la nonna di Agnese Pini, Iolanda, fermata dalle SS, che le puntano la pistola al capo… “Se davvero lei fosse morta al posto di blocco – scrive Pini -, mia madre non ci sarebbe mai stata, e dunque neppure io: a me, bambina, faceva strano pensare quella cosa”.



(Il monumento alle vittime dell'eccidio di San Terenzo Monti)


E poi le SS che pretendono da quella povera gente il cibo e gli animali per sfamare un contingente. E i contadini che richiedono protezione dai partigiani: “I tedeschi ci portano via tutto, così ci fanno crepare. Se si continua così, allora tanto vale crepare”. È un nodo fondamentale. L’accusa è violenta. “Siete qui solo a campare sulle nostre spalle, a chiederci da mangiare, a fumare, a giocare con i fucili. Che ci state a fare? Vivete sulle nostre spalle anche voi”. È la brigata della Ulivi, guidata dal partigiano Memo, su cui pesa la responsabilità di dare risposte alla gente di San Terenzo: la paura delle ritorsioni sui civili – di troppe ce n’è notizia – e l’impellenza di salvaguardare la comunità. L’azione partigiana contro i nazisti che depredano i contadini, a questo punto, è però già scritta.



(Il ricordo delle vittime - foto da Lunigianaworld)


La stessa Pini spiega la scelta della narrazione romanzata nella lunga ricostruzione, quasi ora dopo ora, dal 17 al 19 agosto 1944. Le settantadue ore dell’eccidio, casa per casa, famiglia per famiglia. “Le licenze narrative – dice –, necessarie per tornare indietro nel tempo e rievocare emozioni e atmosfere che altrimenti sarebbero andate perdute, sono state usate cercando di tradire il meno possibile lo spirito e la voce originaria delle fonti”. Per il lettore, il fiato sospeso. Quasi potesse accadere qualcosa che cambia quanto la storia ci ha consegnato.

Dopo, dopo la strage, la colpa data ai partigiani. La questione è (storicamente) delicata e non locale. Il rapporto della comunità con le formazioni partigiane, in questo caso chiamati dalla gente “i carrarini”, perché provenivano soprattutto dalle zone anarchiche di Carrara. Di fatto a San Terenzo, da allora, non hanno voluto i partigiani della Ulivi alle celebrazioni, almeno fino agli anni Settanta. “Anche mia nonna ce l’aveva con loro”, ricorda Pini. “Ora che comprendevo e sentivo il suo dolore, non potevo darle ragione. Perché io, ormai, potevo guardare lei e guardare me stessa, e guardare quei ricordi e tutto il tempo che ci era passato in mezzo. E dunque potevo dare a tutto – ai nazisti e ai fascisti, ai partigiani, all’eccidio, agli orrori e alle morti, a ogni sbaglio e a ogni leggerezza – un peso e un significato precisi: il peso e il significato della storia. Quella storia che aveva liberato mia nonna e che aveva consentito a mia madre e poi a me di diventare quello che siamo diventate”.



(L'ingresso del museo)


Un altro nodo è quello dell’intervento dei fascisti accanto ai tedeschi. Quasi fosse stata guerra civile: un’azione partigiana a cui rispondeva un atto di vendetta. “Ma quanto fecero – con consapevolezza, lucidità, premeditazione, odio, ferocia – le Brigate Nere nelle stragi del 1944 non fu guerra civile. Fu criminalità organizzata, fu barbarie, fu imperdonabile orrore”. Continua Pini: “Ed è qui, è esattamente in questo punto cruciale e delicatissimo, l’equivoco irrisolto, la ferita mai rimarginata, la fatica nel tramandare una memoria in cui gli argini siano chiari e ricomposti, in cui non vi sia spazio per rivisitazioni e revisionismi, per interpretazioni relativistiche che finiscono col trasformarsi nel peggiore dei qualunquismi: quello che negando o banalizzando la verità distrugge la storia”.

“Un autunno d’agosto” si chiude con Palmira che, mentre le mitragliatrici cominciano a sparare sulla gente radunata sotto il pergolato, guarda il grappolo d’uva sopra di lei, che sembra staccarsi dal tralcio, “aveva gli acini viola e brillanti, erano così belli che non si ricordava di averne mai visti di uguali”. Il pudore e la dolcezza con cui Agnese Pini si accomiata dalla bisnonna e da una storia finalmente raccontata.




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