L'Appennino
dimenticato
1943-1945, guerra e resistenza.
Quando fischiava
il vento del Sud
Una recensione di
VITTORIO RAGONE
(foto di Stefano Ardito)
Quand’ero ragazzino la guerra era finita da un ventennio, tanto quanto era durato, all'incirca, il fascismo. I tank alleati erano entrati a Napoli dodici anni prima che la nostra generazione venisse al mondo, e dopo che le Quattro giornate avevano liberato la città. Wehrmacht e SS ingaggiarono nelle città e sugli Appennini, fra il 1943 e il 1945, una guerra di ritirata ostinata e terribilmente cruenta, in parte non prevista dai futuri vincitori.
Non se ne parlava molto, intorno a noi bambini. Né a scuola – i programmi si fermavano più o meno al Risorgimento – né fra gli adulti che avevano sofferto la fame, i bombardamenti, la convivenza coi tedeschi e poi, dopo l’armistizio di Cassibile e la fuga del re, l’occupazione. Negli anni Sessanta lungo la via Marina di Napoli una fila spettrale di detriti, palazzi abbandonati, mura distrutte fiancheggiava ancora le corsie zeppe di automobili. In provincia restavano in piedi le baracche dei profughi.
La guerra aveva lasciato i suoi segni ma una rimozione generale aveva messo la sordina ai racconti. Con poche eccezioni, il Sud archiviò il conflitto a modo suo. Si persero tante tracce di tragedie e di eroismi. Benvenuto dunque Stefano Ardito - camminatore fra i più esperti, giornalista curioso, fotoreporter e alpinista ma anche appassionato e scrittore di storia - e benvenuto il suo nuovo libro, “Guerra in Appennino 1943-1945: lotta per la libertà” (Corbaccio editore). Perché aiuta a colmare le lacune della memoria collettiva, e ci restituisce sofferenze indicibili, atti di valore, lezioni civili da tramandare.
Guerra in Appennino -
1943-45: lotta per la libertà
di Stefano Ardito
Corbaccio editore
Euro 18,62
Ardito lo dichiara nelle pagine iniziali, come un manifesto programmatico: mentre le trincee dolomitiche della Grande guerra occupano un posto d’onore nell’immaginario nazionale, fino a essersi trasformate in “attrattiva turistica” frequentata da escursionisti di tutto il mondo alla scoperta di sentieri, fortini e tunnel nel ghiaccio, la Seconda Guerra mondiale “resta segnata da una lunga serie di umiliazioni e di sconfitte, di cui non esiste una memoria condivisa”.
La Resistenza al Nord, la vita belligerante sotto Salò, l’eroismo delle Brigate partigiane fondarono una narrazione – storiografica, letteraria – certo più debole oggi che il Secolo breve è alle spalle, ma che tramandò simbologie solide e valori condivisi. Sull’ Appennino, questo non fu vero. O meglio: fu solo sporadicamente vero. Il coraggio della brigata Maiella è celebrato largamente, sì, e la Repubblica di Montefiorino è un episodio miliare della Liberazione. Le stragi di Marzabotto e Sant’Anna di Stazzema stanno conficcate nel cuore di milioni di italiani. Ma molti altri episodi, tante rivolte contro i nazifascisti, angherie e spargimenti di sangue restano confinati come lutti locali, isolati angoli di ritualità. Perfino la battaglia di Cassino decade inesorabilmente nelle coscienze: chi ricorda più - fra i viaggiatori che incrociano lassù in alto l’abbazia sull’autostrada del Sole - quante bombe, quanta distruzione, quanta sofferenza schiacciarono quella collina?
Ardito, con uno stile asciutto e drammatico e una profonda conoscenza (e amore) dei luoghi, scava, riporta alla luce le storie d’Appennino. L' elenco di martiri e il bilancio dei costi umani è interminabile: i 42 trucidati a Collelungo del Molise, anziani, donne e bambini di cui restano un memoriale e una lapide di vetta; i morti del monte Tancia e di Leonessa, gli eroi partigiani dell’Arcucciola, i nove ragazzi dell’Aquila, l'eccidio di Onna, la carovana di bambini della Foce in Val d’Orcia, lo sfondamento della linea Gotica e il monte Folgorito. Violenze e crudeltà non sempre da un lato solo, si noti: Ardito non nasconde nulla, segnala i crimini della svastica e dei fascisti ma anche la ferocia dei goumiers, le truppe marocchine francesi, l'accanimento contro la popolazione ridotta a preda di guerra, gli stupri.
L’anno scorso è stato un secolo dalla marcia su Roma, e il ribaltone del Gran Consiglio del fascismo – 25 luglio del 1943 -, che defenestrò Mussolini e aprì la strada all’armistizio, sarà ricordato, chissà come, da un governo i cui azionisti di maggioranza omaggiano sentimentalmente il fascismo, ne conservano vecchi busti, armeggiano tra braccia tese e nostalgie. Nel libro si seguono le orme pure di questa Italia che fatica a accettare i fondamenti della nostra democrazia. Ardito le descrive senza faziosità, meravigliato che il paese abbia tollerato tanto a lungo: la scritta Dux scolpita nei boschi del monte Giano in Sabina; i pellegrinaggi a Predappio; la mitologia sulla fuga del Duce da Campo Imperatore, e tutto il giro di nostalgici che soggiornavano – ora non soggiornano più, ma solo perché da anni l’albergo è chiuso - nella stanza che ospitò Mussolini sul Gran Sasso, comprando vini con l’etichetta di Salò e ogni genere di ciarpame in forma di souvenir.
Nella “Guerra in Appennino” sfila una galleria di uomini e donne a volte divenuti poi potenti e famosi, altre volte persi in piccole nicchie di storia: da Carlo Azeglio Ciampi, giovane ufficiale in fuga dopo l'8 settembre come lui stesso racconterà da presidente della Repubblica, a Ettore Troilo, il comandante partigiano abruzzese. Eroi soldati dai nomi sconosciuti ai più - Lionel Wigram, John Hunt - e ufficiali che hanno firmato le infamie stragiste, come Kappler e Reder. Alcuni capitoli riscoprono autentiche perle d'avventura, frammenti da action movie che riemergono da cronache locali ingiallite: come il mistero della fortezza volante che si schiantò sui costoni della Maiella, e i cui resti solo pochi alpinisti sanno come raggiungere.
Per questi mondi di montagna, dove la natura col tempo ha prevalso seppellendo i marchi di morte e di orrore sotto vegetazione e strati di terra, Ardito propone un approccio delicato e saggio. Si può rendere omaggio al passato e insieme godere di una natura mai totalmente addomesticata, fermarsi a riflettere sui destini, le azioni e le loro conseguenze, dopo la fatica di una scalata. L’ Appennino custodisce borghi cancellati, lapidi consumate, croci, bunker e buche di bombe. I sentieri sono qualche volta segnati, molto spesso no. I cimiteri di guerra (polacchi, brasiliani, americani, britannici) imbiancano di marmo le contrade italiane. Cerimonie locali vengono celebrate con discrezione, spesso i morti vivono solo nel ricordo dei pronipoti. C’è un turismo del sentimento e delle radici ancora molto da costruire, dove una volta fischiava il vento del Sud.
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