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I Bambini
e i Comunisti

Quando il Partito era una vita intera

Una recensione
di FABIO ZANCHI

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La prima volta, per me, fu nel ’59. Avevo sette anni. All’uscita di scuola, l’elementare Fratelli Bandiera di Roma, il mio compagno di classe Grappasonni, che quel giorno aveva la luna girata, mi urlò: “Comunista!”. Davanti a tutti. Grande imbarazzo delle madri, che ci erano venute a prendere. La signora Grappasonni si scusò, strattonando il figlio e affrettando il passo verso casa. La mia si limitò a tranquillizzarmi con un’occhiata dissimulante. A dire il vero non capii la ragione di tanto trambusto. Ero pur sempre un figlio del Partito, io: comunista figlio di comunisti. E Grappasonni, anche se voleva offendermi, aveva pur detto la verità, nient’altro che la verità.

Il fatto è che a Roma eravamo stati trasferiti perché a Mantova mio padre, insieme agli altri della Federazione del Pci, nel ’56 aveva preso pubblicamente posizione contro l’intervento dell’Urss in Ungheria. Come aveva fatto Giuseppe Di Vittorio, il segretario generale della Cgil. Grande fu lo scontro nel Pci. A Mantova venne addirittura Pietro Secchia, a tenere la riunione del Comitato federale. E con Secchia proprio mio padre ebbe lo scontro più duro. “Compagno Zanchi, devi fare l’autocritica” intimò l’inviato di Botteghe Oscure. “Compagno Secchia, l’autocritica la devi fare tu”.

Correspondence Album Cover


La bambina che mangiava i comunisti – di Patrizia Carrano

Vallecchi Editore - Firenze
Euro 16,00

Il risultato fu che mio padre, che aveva deciso di pubblicare sul Progresso, il periodico del Pci mantovano, la citazione gramsciana “La verità è sempre rivoluzionaria”, venne spedito a Roma – e noi con lui – a lavorare a Botteghe Oscure, con Giancarlo Pajetta. Da Pajetta, in sede molto separata, ebbe “la” spiegazione: “Vedi, Attilio, hai ragione, ma non è il momento di dirla”.

Il salto dalla realtà mantovana a quella romana fu straordinario e, almeno per me, meraviglioso. Vivevamo in un appartamento di via Pavia numero 4, senza frigorifero né televisione, in una casa del Partito affollata di persone leggendarie. C’era, per esempio, Rita Montagnana con il figlio di Togliatti, Aldo. Persona gentilissima, Rita ogni giorno alle cinque del pomeriggio apriva la porta del suo appartamento per accogliere noi piccoletti a vedere la Tv dei ragazzi: lei ce l’aveva, la televisione.

C’era, due piani sopra di noi, Paolo Robotti, il cognato di Togliatti scampato alle torture subite alla Lubjanka. Appassionato di fotografia, mi ritraeva davanti a un modellino dello Sputnik o del Cremlino, oppure mi portava in giro per Roma, a Villa Borghese, al Colosseo, ai Fori, per scattare foto che poi sviluppava e stampava. Una delle modelle che preferiva era anche mia madre Elda.

Poi c’erano il compagno Ossola, che aveva combattuto in Spagna, e sua moglie Conchita. Egle Gualdi, la moglie di Agostino Novella, partigiano e segretario della Cgil dopo Di Vittorio. E la bolognese Edera, che aveva il frigorifero e spesso ospitava il cibo cucinato da mia madre. Mitico il portinaio, Santini (non ho mai saputo il suo nome): una vera guardia rossa, che non faceva entrare nessuno nel palazzo se non lo conosceva. Neppure se si qualificava come tuo parente. Accadde a mia cugina Annamaria, venutaci a trovare da Mantova. Santini la fece aspettare per ore sui gradini del palazzo, per niente impietosito dalla sua giovane età, e le aprì soltanto quando i miei tornarono dal lavoro.








(L'autore della recensione ritratto nel '59 da Paolo Robotti)


I ricordi più forti sono legati a Botteghe Oscure. Non solo perché ci lavorava mio padre. Il fatto è che nei sotterranei del palazzo c’era l’ambulatorio dove noi figli del Partito venivamo curati. Per esempio, quando per combattere il rachitismo o le “gambe a ics” venivamo sottoposti a sedute di raggi ultravioletti (tecnologia sovietica). Particolari che ho ritrovato, tutti, nel libro scritto da Patrizia Carrano, “La bambina che mangiava i comunisti”, edito da Vallecchi. Un bel libro, uscito a febbraio e già arrivato alla seconda edizione.

Il romanzo, che ha come protagoniste la bambina Elisabetta e sua madre comunista tutta d’un pezzo, è ambientato nel 1956, annus horribilis per il Pci a causa dell’invasione dell’Ungheria e del crollo del mito di Stalin. Il racconto mette a fuoco l’universo parallelo vissuto da Elisabetta e da quelli come lei. In quegli anni i figli del Partito non leggevano i fumetti come Topolino o il Corriere dei Piccoli, ma il Pioniere: un giornaletto assai pedagogico, che aveva come eroe Chiodino poi sostituito, di pari passo con il progresso scientifico, da Atomino; le poesie di Gianni Rodari, entrate soltanto parecchio più tardi nel bagaglio culturale delle giovani generazioni; i disegni di Verdini. Come Elisabetta (e come me) a Botteghe Oscure avevano, a curarli, un grande della pediatria, Vincenzo Pedicino. A fine anno al quarto piano del Bottegone ricevevano i doni della Befana – cibi e giocattoli -, che rimpiazzavano la tredicesima “che per noi comunisti non è prevista”, come scrive la Carrano.


(Giancarlo Pajetta con Giorgio Napolitano nell'87 - foto di Indeciso42 at Italian Wikipedia)


La storia di Elisabetta è una storia di diversità. La madre glielo dice bruscamente, senza mezzi termini: “Che ti frega di quel vestito pacchiano! Tu sei diversa, e avrai una vita diversa!” Una verità che, fino a quando non è tramontato il Sol dell’avvenire, veniva appena percepita. E che, certo, si è imposta con forza con il passare degli anni.

Grappasonni direbbe che il libro della Carrano è per comunisti. Ma anche e soprattutto per chi non lo è o non lo è stato. Permette di capire, attraverso gli occhi di una ragazzina, tante cose del nostro Paese e della nostra gente. Una storia - scrive l’autrice - “per chi ha amato i comunisti. Per chi ha odiato i comunisti. Per chi non sa nulla del Pci. Per chi si illude di sapere tutto del Pci. Per chi crede nello sguardo rivelatore dell’infanzia”.


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