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Dieci, cento
mille Jannacci

Il poeta e il dottore
racconto di una vita

Una recensione di
FABIO ZANCHI

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Ha ragione Vasco Rossi: “Per me Enzo Jannacci era un genio”. Inimitabile. Ognuno però ne ha un’immagine che coltiva con la passione che si riserva agli amici più intimi. Perché Jannacci ha parlato a ognuno di noi, toccandoci nel profondo. “Enzo non è cresciuto in provetta, è sempre stato un istintivo” diceva Beppe Viola, uno che ne sapeva, e sapeva come dirlo. “Jannacci ha dentro poesia schietta, sostenuta da amore per la povera gente”, lo racconta Luciano Bianciardi. “Come medico, era uno serio, diligente, generoso, di grande volontà, appassionato a questo lavoro”, parola del dottor Marco Giacomoni, con lui per un mese e mezzo con base alla Columbia University e a Chicago per uno stage. Uno come Elio confessa: “L’ho sempre ammirato per la sua attenzione ai più infelici della società”. E Paolo Conte: “Per me è il più grande cantautore che ha espresso l’Italia. Di Jannacci ho ammirato la mistura tra astrazione e realismo. La grande serietà della sua personalità”. E Dario Fo: “Enzo è un uomo colto e spiritoso, un umorista concreto e metafisico allo stesso tempo”. Insomma, come dice Renzo Arbore: “Enzo Jannacci è il numero uno in assoluto”. Definitivo.



cicchetti 02


La conferma che ognuno ha dentro di sé il proprio Jannacci e a dieci anni dalla sua scomparsa continua a cantarselo come vuole è venuta poche sere fa – sembrava un mercoledì come un altro – a Milano, all’Osteria del treno dei fratelli Bissolotti. Il luogo non poteva essere diverso. La compagnia, centosessanta persone attovagliate come solo dai Bissolotti è possibile, pure. L’occasione, una delle migliori: la presentazione del libro che Enzo Gentile ha scritto insieme a Paolo Jannacci, figlio di tanto padre (“Enzo Jannacci - Ecco tutto qui”, Hoepli editore). E lì, tra una portata e l’altra, in tanti hanno ridato voce alle canzoni di Enzo. Chi suonando con rigore e commozione “Vincenzina e la fabbrica”, come Gigi Marson (mantovano doc, mica paglia), chi con maestria e passione come i Sulutumana, chi offrendo un’interpretazione blues come Paolo Pasi (sì, proprio l’insospettabile e serissimo giornalista Rai), chi dando voce e cuore alla propria nostalgia, come Angelo Bissolotti, l’oste padrone di casa.


"Enzo Jannacci
ecco tutto qui"

Paolo Jannacci e Enzo Gentile

Hoepli edizioni
19,90 euro

E poi ci hanno dato dentro tutti, anche quelli con le gambe sotto il tavolo e un bicchiere di barbera in mano. E giù a stravolgere con allegria le canzoni di sempre. Vecchie non tanto, poi, perché la traccia lasciata da Jannacci è profonda e tuttora profondamente condivisa. Per rendersene conto, il libro di Gentile, scrupoloso cronista, è assai utile. In quelle 219 pagine, oltre ai ricordi di chi l’ha conosciuto, c’è tutto, ma proprio tutto. Si parte dagli Anni ’50, con la scoperta della musica, il jazz e il rock’n’roll, da suonare nelle cantine con gli amici fino a tardi. E poi la tv, la collaborazione con Gaber, il teatro. I suoi racconti della gente più semplice, più strampalata, più sfortunata, più umana. A ogni disco Enzo Gentile dedica preziose e accurate schede: anche per questo il libro è di quelli da prendere.






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(Enzo Jannacci con il figlio Paolo)


Molto divertente la sezione fotografica, perché fa scoprire lati e storie di Jannacci molto particolari. Per esempio, da un manoscritto si scopre che è stato uno dei pochi dottori (nel senso del medico, il dutùr) con una calligrafia chiara e intellegibile. Per inciso: il manoscritto è quello della prima stesura della “Lettera da lontano”, con un verso che lascia a bocca aperta: “Lettera che sembra una canzone d’amore / con troppi diesis e pochissimo cuore”.



(Jannacci e Gaber)


C’è anche una foto che gli fece Fabio Treves (detto il puma di Lambrate…) all’Idroscalo. Jannacci è su un windsurf, in mutande. Il fatto è che aveva dimenticato il costume: senza scomporsi – racconta Treves – usò le mutande, spiegando: “Bisogna vergognarsi solo a fare del male…” Questo era Jannacci, che da dieci anni riposa al Monumentale. E bene ha fatto il Comune, su proposta di Fabrizio Ravelli, giornalista, a dedicargli la Casa dell’accoglienza. Per i non milanesi: il dormitorio di viale Ortles, dove vanno a riposare i barboni.




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