Poco noto film anglo-americano del 1999 tratto dal “Tito Andronico” di William Shakespeare. Seguendo una moda molto in voga in quegli anni, Julie Taymor propone una trasposizione del dramma shakespeariano che mescola contemporaneità e antichità. Ecco quindi che Roma, che fa da splendida cornice alla drammatica vicenda, è presentata non solo nelle sue vestigia di un passato imperiale, con scene girate all’Appia Antica o al Parco degli Acquedotti, ma anche nella sua architettura novecentesca, con gran parte della pellicola che viene ambientata all’Eur e nella piscina del Foro Italico.
Nonostante la presenza di attori premi Oscar del calibro di Anthony Hopkins e di Jessica Lange che interpretano i ruoli principali, il tentativo registico di miscelare passato e presente, il surreale uso di anacronismi, con automobili anni trenta che sfilano tranquille in quella che dovrebbe essere la Roma degli imperatori, non è così efficace e ben riuscito, come era stato, ad esempio, quattro anni prima, nel Riccardo III di Richard Loncraine, altro film tratto da una tragedia shakespeariana ma ambientato in quel caso nell’Inghilterra degli anni venti del novecento.
E sebbene ci siano nel film immagini bellissime del cosiddetto “Colosseo quadrato” e di altre zone della città, per uno spettatore romano ha un effetto grottesco la scelta di raffigurare le due fazioni in lotta per la guida dell’Impero di Roma come se fossero le tifoserie delle due squadre di calcio capitoline, coi due schieramenti opposti, che sventolano l’uno dei drappi giallorossi e l’altro delle bandiere biancocelesti. Da salvare restano le inquadrature dei monumenti della Roma del ventennio, isolati e valorizzati con uno stile cinematografico che ricorda molto quello usato dalla propaganda nazifascista nei film per il Fuhrer girati negli anni trenta da Leni Riefenstahl.
Uno dei più originali e toccanti film italiani del XXI secolo, è anche uno straordinario omaggio alla Capitale, oltre che - nonostante le atmosfere da fumetto ricche di rimandi ai supereroi dei cartoni o le scene pulp alla Manetti Bros - una pellicola piena di citazioni dei grandi del passato, forse volute o forse inconsapevoli, che ricorda persino alcuni capolavori del cinema neorealista. Proprio come nel più premiato film di De Sica, ad esempio, i protagonisti vivono in una periferia senza speranza, ma da lì, durante lo svolgimento della vicenda, si spostano in tutta la Città Eterna, ripresa e presentata nei suoi diversi aspetti, dal Colosseo al Lungotevere, da Cinecittà al Foro Italico.
Diretto nel 2015 da Gabriele Mainetti, con le straordinarie prove attoriali di Claudio Santamaria l’eroe, Ilaria Pastorelli la bella e Luca Marinelli nella parte del cattivo, le prime scene sono dedicate a Tor Bella Monaca, il quartiere dove vivono i protagonisti, che nel film appare un luogo tanto fascinoso quanto inquietante e disperato. Ma è in pieno centro, lungo le banchine del Tevere, che si svolgono alcune delle scene più importanti del racconto, così come a Porta San Paolo, dove il protagonista ferma a mani nude un tram. Non manca nemmeno la Roma dei centri commerciali, per la precisione quello di Cinecittà Due, dove ha luogo la passeggiata romantica e poi l’amplesso dell’eroe con la sua bella.
La scena conclusiva, con la lotta fra il bene e il male, fra l’eroe e il cattivo, all’esterno dello Stadio Olimpico durante il derby Roma-Lazio, con la folla ignara che sciama all’esterno dello stadio al termine della partita, sembrerebbe un voluto omaggio al finale di “Ladri di biciclette”, altro film in cui il protagonista si trova improvvisamente circondato dalla folla dei tifosi del dopopartita. Ma è nell’ultima immagine, quella in cui la sagoma di Jeeg Robot si staglia in piedi sul Colosseo, che la pellicola esprime chiaramente ciò che durante il racconto si avverte sotto traccia: è infatti Roma, con i suoi simboli eterni, oltre che il leggendario “Jeeg” del titolo, a assurgere al ruolo di vera “eroina”, positiva e immortale, dell’intera vicenda.
Quello che è il capolavoro indiscusso del neorealismo è anche una straordinaria visita guidata nella Roma di fine anni quaranta, raccontata ampiamente in immagini, dal centro alla periferia. Realizzato nel 1948 da Vittorio De Sica con la partecipazione di attori non professionisti, il film presenta ampi scorci della città, che appare in tutta la sua grandiosità e soprattutto in tutta la sua miseria post bellica.
La vicenda inizia al Tufello, un quartiere all’epoca ancora in costruzione, come si vede bene da diverse scene, girate a via delle Isole Curzolane, nei palazzi che sorgevano allora in mezzo al nulla e in cui, nel film, vive il protagonista Antonio con la moglie Maria. Lui è stato da poco assunto come attacchino comunale, ma per svolgere il proprio lavoro ha bisogno di una bicicletta, che però in quel momento non possiede.
Con Maria si reca perciò in Via del Corso. È nel palazzo della Cassa di Risparmio che, nella finzione scenica, viene ubicato il Monte di Pietà. Qui, impegnando sei lenzuola, la coppia ottiene i soldi per l’acquisto del mezzo. Purtroppo, proprio durante il suo primo giorno di lavoro la bici gli viene rubata nei pressi di via del Tritone e Antonio comincia così un lungo giro per tutta la città, alla ricerca dei ladri e della sua indispensabile due ruote.
E’ domenica. Antonio raggiunge prima Piazza Vittorio, poi il mercato di Porta Portese sperando di vedere lì la sua bici, magari in vendita; ma della bicicletta non c’è traccia. Dopo essersi fermato a pranzare col figlio Bruno in una trattoria di via di Ripetta, Antonio riprende le ricerche. Anche la sua visita nei pressi del Gazometro, dove vive il sospetto autore del furto, si rivela un buco nell’acqua. Perciò, giunto a sera, amareggiato e senza avere raggiunto il proprio scopo, Antonio si dirige lungo via Flaminia, dove si ferma ad attendere il tram verso casa.
In quell’istante, vedendo un’altra bici lasciata incustodita, spinto dalla disperazione tenta a sua volta di rubarla. Non pensa che poco distante c’è lo stadio e che la partita di campionato è appena terminata. La folla che sciama dal Flaminio (l’Olimpico non era ancora stato costruito), riempie immediatamente la via. Qualcuno lo vede mentre cerca di rubare la bici e blocca il suo tentativo di furto. In una Roma povera, ma tutto sommato solidale, nessuno se la sente di denunciarlo. Antonio potrà riprendere liberamente la via del ritorno verso casa, anche se deluso, umiliato e senza più nulla in mano, se non la propria disperazione.
Capolavoro del 1987 del regista inglese Peter Greenaway (titolo originale “The Belly of an Architect”), racconta le vicende dell’architetto Stourley Kracklite, che arriva a Roma con la giovane moglie Louisa per organizzare una mostra dedicata ai progetti dell’architetto francese del settecento Étienne-Louis Boullée. Ma, insieme a Kracklite, è Roma la vera protagonista del film, Roma e il suo monumento più imponente, ma anche il più criticato e disdegnato dai romani: il Vittoriano. Ed è proprio al suo interno che verrà organizzata la mostra dedicata a Boullée.
Kracklite resta affascinato dalla Città Eterna e dalle sue cupole, ma durante il suo soggiorno scopre di avere una forma incurabile di cancro al pancreas. Contemporaneamente sua moglie gli annuncia di essere incinta. Da quel momento, tutto il film è un continuo gioco di rimandi fra la vita e la morte, la bellezza e la decadenza, la nascita e il disfacimento, fra l’intimità sempre più cupa dei pensieri del protagonista e la meraviglia solare delle architetture romane.
Nel tragico finale, l’unione indissolubile fra vita e morte, Eros e Tanathos, bellezza e decadenza, è plasticamente messo in scena, con Louisa che viene colta dalle doglie nel momento dell’inaugurazione della mostra dedicata a Boullée, dando alla luce il proprio figlio all’interno dell’Altare della Patria e Kracklite che, nello stesso istante, quasi fosse una novella Tosca, in preda al delirio e alla depressione, si getta dall’alto del Vittoriano, uccidendosi.
Dopo aver girato nel 2011 “Midnight in Paris”, visionario e originale racconto di una Parigi zeppa di artisti, di viaggi nel tempo e di sogni romantici, Woody Allen decise di proseguire il proprio tour cinematografico delle capitali europee, sbarcando a Roma l’anno dopo, nel 2012. “To Rome with love” è un film che intreccia quattro diverse storie, tutte ambientate nella Città Eterna: quella di Jack, studente americano, felicemente fidanzato ma invaghito della migliore amica della propria compagna; quella di Jerry, produttore discografico in pensione; quella di Leopoldo Pisaniello, uomo qualunque divenuto improvvisamente una star dei media; quella di Antonio, che si trova a dover spacciare per sua moglie una prostituta.
La pellicola, nonostante un cast d’eccezione di cui fanno parte, oltre allo stesso Allen, anche Penelope Cruz e Roberto Benigni, non riesce a ripetere l’efficacia comica, poetica e surreale della precedente opera parigina. I personaggi di “To Rome with love” risultano, infatti, macchiette inverosimili, tutti assai poco credibili e poco strutturati, mentre Roma è sì un meraviglioso sfondo da cartolina, però troppo laccato e iconico per risultare davvero apprezzabile. Le immagini della capitale, sebbene un po’ scontate, sono comunque bellissime e certamente il film ha il valore di documentare bene come la città venga vista dagli occhi di un turista statunitense.
Molti sono gli attori italiani di grido che appaiono in piccoli ruoli di questa pellicola: da Riccardo Scamarcio a Ornella Muti, da Antonio Albanese a Lina Sastri e poi ancora Giuliano Gemma, Maria Rosaria Omaggio, Gianmarco Tognazzi, Donatella Finocchiaro, Lino Guanciale, Alessandra Mastronardi, Edoardo Leo. Tra le curiosità c’è il fatto che questo è anche il primo film interpretato da Allen dopo la morte del suo storico doppiatore Oreste Lionello. Dopo vari provini, la voce che si scelse nella versione italiana per doppiare il regista newyorkese fu quella di Leo Gullotta.