Il film, del 1975, è il primo della serie di pellicole che vede come protagonista il commissario Betti, interpretato da Maurizio Merli, un personaggio destinato a diventare l’icona di un genere cinematografico molto amato nell’Italia degli anni Settanta. Parliamo di quello che verrà definito il poliziottesco, o anche poliziesco all'italiana, un genere che, prendendo spunto da fatti di cronaca nera raccontava storie ricche di sparatorie, inseguimenti in auto, indagini svolte da poliziotti integerrimi, spesso incompresi dai propri superiori, generosi ma anche spicci e violenti quasi quanto i malfattori contro i quali combattono. A dirigere “Roma violenta” è Marino Girolami, all’epoca noto per avere girato numerose commedie erotiche all’italiana, che decise di firmare questa pellicola con lo pseudonimo di Franco Martinelli, ritenendo che il suo vero nome non fosse adatto, poiché rimandava troppo ai suoi precedenti film di genere boccaccesco.
Il film racconta una Roma infestata dalla criminalità, in cui rapine e omicidi sono all’ordine del giorno, in cui si spara e si uccide anche per motivi futili. Il commissario Betti tenta in ogni modo di contrastare i criminali riuscendo a consegnarne diversi alla giustizia, ma si rende anche conto che, seguendo le regole, ha spesso le mani legate e non potrà ottenere nessun risultato duraturo. Per questo, dopo varie vicende e dopo essere anche stato incriminato per i suoi metodi troppo spicci, decide di lasciare la polizia e di aderire a un gruppo di vigilantes privati che "vegliano" sulla città. Con questo gruppo sgomina, uccidendoli, diversi malviventi, riuscendo a evitare un’ulteriore incriminazione poiché gli viene riconosciuta la legittima difesa. Ma un suo ex collega, il brigadiere Biondi, lo porterà a riflettere sul fatto che questa giustizia privata è, a suo modo, un’altra forma di delinquenza, lasciandolo tra dubbi e pensieri.
Fin dalla prima scena, ambientata su un bus tra Porta Pinciana e piazzale Flaminio, Roma, come d’altronde viene suggerito dal titolo, è la principale protagonista della storia. E Roma apparirà ovunque. La scena della rapina al supermercato è girata in via Casilina. L'inseguimento che segue è invece una sorta di tour della città, che attraversa l’EUR, la vecchia Fiera di Roma sulla Cristoforo Colombo, le Mura Aureliane, la Basilica di San Giovanni e persino la Tangenziale Est, nonostante all’epoca delle riprese fosse ancora chiusa al traffico pubblico. Altre scene del film si svolgono in zona Laurentina, in via di Vigna Murata, in Piazza Mincio, oltre che in centro. Insomma, in questa pellicola quasi tutta Roma è toccata, come a dire che tutta la città è attraversata dalla “violenza” indicata nel titolo del film.
«Boccaccio '70» è un film a episodi del 1962 diretto da quattro grandi maestri del cinema italiano: Vittorio De Sica, Federico Fellini, Mario Monicelli e Luchino Visconti. Quattro episodi tutti a tema “boccaccesco”, cioè incentrati sull’eros, narrato dai vari autori in una comune chiave ironica. Curiosamente, come è possibile vedere anche dal trailer internazionale qui pubblicato, nell’edizione per l’estero della pellicola venne escluso l’episodio girato da Monicelli, tanto che gli altri tre registi, per protesta, si rifiutarono di recarsi al Festival di Cannes al quale erano stati invitati a presentare il film.
Se né l’episodio di Visconti, intitolato “Il lavoro”, con una sensuale Romi Schneider che pretende dal marito il pagamento delle proprie prestazioni sessuali per punirlo dei suoi tradimenti, né quello di De Sica, intitolato “La riffa”, con una esplosiva Sophia Loren che è il premio in palio in una lotteria di paese, né quello di Monicelli, intitolato “Renzo e Luciana”, che racconta di una coppia di sposini impossibilitati a fare l’amore per via dei diversi turni di lavoro, hanno alcun legame evidente con Roma, nell’episodio girato da Federico Fellini, intitolato “Le tentazioni del dottor Antonio” e interpretato da Peppino De Filippo e Anita Ekberg, Roma è protagonista assoluta della vicenda, non solo nelle architetture dell’Eur, che fungono nel film da straniante scenografia metafisica, quasi come in un quadro di De Chirico, ma anche nella rappresentazione dei palazzi della politica, del clero, di un sottobosco amministrativo ricco di uno spirito ipocritamente censorio, che all’epoca risultava ancora predominante in città e nel paese.
“Le tentazioni del dottor Antonio”, piccolo capolavoro d’ironia del maestro riminese, è il racconto della Roma bacchettona dei primi anni Sessanta ma anche dei cambiamenti che stavano avvenendo nel comune senso del pudore. E’ un film autoironico, che sotto metafora prende in giro le peripezie con la censura vissute dal suo precedente film “La dolce vita”, di cui non a caso Fellini sceglie il simbolo erotico per antonomasia, per renderla protagonista anche di quest’opera: Anita Ekberg, detta “Anitona”.
La storia è quella di Antonio Mazzuolo, interpretato da Peppino De Filippo, un moralista puritano, davanti al cui appartamento viene montato un enorme cartellone pubblicitario che raffigura la Ekberg che pubblicizza i valori nutritivi del latte. “Bevete più latte” dice quella pubblicità e si sente anche cantare in sottofondo, nella canzone-tormentone del film.
Antonio cerca di smuovere tutte le sue conoscenze e si reca da prelati e politici per fare eliminare quell'immagine licenziosa, ma una notte scopre di essere attratto sessualmente proprio da quella figura che vorrebbe censurare.
Anita Ekberg gli appare così, forse in un sogno, forse in un delirio, forse nella realtà, gigantesca come è nel cartellone, da cui si alza e prende vita, cominciando a camminare, a ridere, a parlargli, seducente, ammiccante, enorme, fra le strade e i palazzi dell’Eur, in una luce irreale. “Anitona” (mai accrescitivo fu più azzeccato) è diventata ormai una sorta di meraviglioso Godzilla erotico, il più sensuale dei mostri, un mostro che Antonio vorrebbe scacciare e uccidere, ma da cui è anche irresistibilmente attratto.
Il film, diretto nel 1978 da Luigi Comencini e ispirato da un racconto di Julio Cortazar, racconta la scena apocalittica di un colossale ingorgo stradale che paralizza la Capitale per giorni. Tra le macchine ferme nel traffico si incrociano le vicende di persone diversissime fra loro, costrette a interagire dalla situazione in un gioco di relazioni che dimostra via via, col passare delle ore, un progressivo e inesorabile abbrutimento generale. Interpretato, tra gli altri, da Alberto Sordi, Ugo Tognazzi, Marcello Mastroianni, Stefania Sandrelli, il film vanta un cast di valore internazionale, con la presenza di Fernando Rey, Gerard Depardieu, Annie Girardot, Patrick Dewaere, Miou-Miou e una giovanissima ed esordiente Angela Molina.
L’ingorgo in cui restano intrappolate le auto si presenta come una chiara metafora della paralisi sociale e politica in cui pare essere sprofondata la società e la città di quegli anni, accentuata dalla presenza, accanto alla strada, di un grande sfasciacarrozze, simbolo di decadenza e di morte. Questo è lo scenario nel quale si muovono i personaggi, tra cui troviamo: un ricco e bene introdotto imprenditore, una giovane hippie, un attore piuttosto famoso, alcune coppie in crisi, una litigiosa famiglia napoletana, un gruppo di delinquenti e dei giovani di buona famiglia.
Durante la giornata tutti finiscono per rivelare i propri caratteri e anche le proprie meschinità. L'imprenditore, che si proclama generoso e di idee socialiste, si tira indietro alla prima richiesta di aiuto. All'interno della famiglia napoletana la ragazza più grande è incinta e il padre insiste per farla abortire. Mentre l’attore viene riconosciuto e ospitato da una coppia che vive in un casolare vicino alla strada, la hippy fraternizza col giovane conduttore di un furgone. Col trascorrere delle ore la situazione, però, degenera ed esplodono rabbia, violenza, sopraffazione, rancori. Il culmine si ha durante la notte, quando l’autista del furgone viene tramortito dai giovani di buona famiglia e la ragazza hippy violentata, mentre il gruppo di delinquenti, che assiste alla scena, decide di non muovere un dito. Trascorse ventiquattr’ore, un altoparlante da un elicottero invita gli automobilisti a riaccendere i motori. Quando però cala una nuova notte, nessuna delle macchine è ancora riuscita a ripartire.
Apparentemente ambientato sul tratto di Appia che si immette nel Raccordo Anulare, il film, in realtà, è interamente girato a Cinecittà, in parte nella zona che in seguito verrà occupata dal centro commerciale Cinecittà Due, la maggior parte all’interno degli studi cinematografici, dove sono stati ricostruiti la strada, una stazione di servizio, lo sfasciacarrozze, una fabbrica e il casolare dove viene ospitato l’attore, che ne ricorda uno realmente presente nelle adiacenze di via Appia Pignatelli.
«La storia toccante di “Umberto D”, girata nel 1952 da Vittorio De Sica, è uno dei capolavori del neorealismo italiano assieme al suo “Ladri di biciclette” e a “Roma città aperta” di Roberto Rossellini. La vicenda, ambientata nella Roma post bellica ma che potrebbe risultare anche molto attuale, dati gli stravolgimenti economici e sociali dell’attuale periodo pandemico, narra di un ex funzionario ministeriale, Umberto Domenico Ferrari, appartenuto per decenni a una classe medio borghese, impoveritosi nel periodo del conflitto e costretto ora a recarsi alla mensa dei poveri per poter sopravvivere. È anche minacciato di sfratto e, per pagare l’affitto, si trova a vendere il suo orologio e alcuni libri.
Anziano e solo, le sue uniche compagnie sono quella del suo cane Flaik e di una servetta dolce e comprensiva, interpretata da una esordiente Maria Pia Casillo, che diverrà famosa negli anni Cinquanta grazie alle sue successive caratterizzazioni in film come “Pane amore e fantasia” o “Un americano a Roma”. Umberto, in giro per la città, non trova altra via che quella di chiedere l’elemosina, ma la sua dignità gli impedisce di farlo. Intanto la proprietaria di casa ha deciso di sfrattarlo. Disperato, Umberto medita il suicidio. Ha intenzione di gettarsi sotto un treno, ma sarà proprio Flaik a intuire il progetto e a impedirglielo.
All’uscita nelle sale il film, osannato dalla critica, fu accolto tiepidamente dal pubblico, che non amava vedere raffigurate sullo schermo le proprie paure e miserie. Anche Giulio Andreotti, all'epoca sottosegretario allo spettacolo, criticò la pellicola, scrivendo sulla testata Libertà: “Se è vero che il male si può combattere anche mettendone a nudo gli aspetti più crudi, è pur vero che, se nel mondo si sarà indotti - erroneamente - a ritenere che quella di Umberto D è l'Italia della metà del XX secolo, De Sica avrà reso un pessimo servizio alla sua patria, che è anche la patria di Don Bosco, del Forlanini e di una progredita legislazione sociale”. Il film è quasi interamente girato al centro di Roma e nella zona della Stazione Termini, da Piazza della Minerva a via San Martino della Battaglia, da via Flaminia a via Cernaia a Porta Portese. Solo la scena del treno è girata invece nella stazione di Palo Laziale.
«Più di trent’anni prima de “La grande bellezza” di Sorrentino c’è un’altra grande terrazza romana, frequentata dall’agiata intellighenzia di sinistra, che viene rappresentata al cinema. Parliamo di un film del 1980 diretto da Ettore Scola, intitolato appunto “La terrazza”, interpretato, tra gli altri, da Vittorio Gassman, Ugo Tognazzi, Marcello Mastroianni, Stefania Sandrelli.
Su una terrazza romana si incontrano periodicamente alcuni vecchi amici e colleghi. Il film presenta uno di questi incontri e racconta i fatti in cinque diversi episodi, narrati ciascuno secondo i cinque punti di vista differenti dei protagonisti. Il primo episodio presenta le vicende di uno scrittore cinematografico in crisi creativa (Jean-Louis Trintignant). Il secondo è quello di un giornalista, ormai vecchio stile, che cerca di riconquistare la propria moglie (Marcello Mastroianni). Il terzo è quello di un funzionario della Rai in forte crisi depressiva (Serge Reggiani). Il quarto narra di un produttore cinematografico alle prese con i capricci della consorte (Ugo Tognazzi). L'ultimo parla di un deputato del Partito Comunista Italiano (Vittorio Gassman), che ha una relazione extraconiugale con il personaggio interpretato da Stefania Sandrelli, con cui però ama pubblicamente battibeccare (e qui il legame col Jep Gambardella de “La grande bellezza”, che in quel film massacra verbalmente Stefania su una terrazza romana, per poi chiederle a quattr’occhi di fare l’amore, sembra innegabile).
“È pronto! Venite”. Questo è il tormentone che apre il film ed è anche la frase che risuona ogni qualvolta si apre un nuovo episodio. Oltre agli interni, in cui si svolgono le cene, le immagini in esterno de “La terrazza” sono tutte girate a Roma: da piazzale delle Belle Arti al Foro a via Monte Zebio, oltre al quasi immancabile Gazometro (sfondo molto amato dai registi italiani) e a una villa di Casal Lumbroso, in cui nella pellicola viene collocata l’abitazione di Ugo Tognazzi.