Gli effetti della legge Merlin su quattro prostitute romane, sfrattate dalle case di tolleranza e decise a riprendere il lavoro clandestinamente sotto la copertura di un’apparentemente innocua trattoria che vogliono prendere in gestione, ristrutturando un casale nella periferia romana. Diretto nel 1960 da Antonio Pietrangeli, con un cast internazionale che comprende Simone Signoret (Adua), Sandra Milo, Emanuelle Riva, Gina Rovere, Claudio Gora e Marcello Mastroianni, il film ebbe alla sua uscita un buon successo di pubblico, nonostante il tema per l’epoca scabroso.
Il progetto delle quattro donne incontra numerosi ostacoli. A causa del loro passato sono state infatti schedate come prostitute e il comune nega loro la licenza per l’apertura della trattoria. Adua decide allora di rivolgersi a un certo Ercoli (Claudio Gora), che fiuta l’affare e intercede per loro. L'accordo è che, nei primi mesi, le donne dovranno mantenere un comportamento irreprensibile, per non dare nell’occhio, per poi riprendere la vecchia attività e corrispondere a Ercoli, che avrebbe continuato a coprirle, la somma (per l’epoca stratosferica) di un milione di lire al mese. Le donne però, cominciano a poco a poco ad apprezzare la possibilità di uscire dal giro della prostituzione e di dedicarsi definitivamente alla vita “onesta” della trattoria, scatenando così le ire di Ercoli, che causeranno nuovi cambiamenti e nuovi problemi.
Dalla centralissima Salita del Grillo, dove è ubicata nel film l’originaria casa di tolleranza delle donne, la Roma descritta da Pietrangeli è anche quella un po’ più periferica. Il casale da trasformare in trattoria è sull’Appia Pignatelli, non distante dal Mausoleo di Cecilia Metella. La casa in cui abita Mastroianni, che farà amicizia con Adua, è in via Marco Polo, in zona Ostiense. Altre scene sono girate al Pinciano, a via Meropia, nei pressi delle Fosse Ardeatine, all’ex Cinodromo di Ponte Marconi oltre che nelle più centrali piazza del Popolo, via Veneto, piazza di Trevi, via del Porto di Ripa Grande.
Diretto nel 1943 da Mario Bonnard, con la coppia Aldo Fabrizi e Anna Magnani che nello stesso anno saranno i protagonisti anche del film “L’ultima carrozzella”, un’altra opera che come “Campo de’ Fiori” farà un uso, per l’epoca quasi rivoluzionario, di scene girate, anziché in studio, nelle vere piazze e strade di Roma, oltre che di una recitazione spontanea con forte accento dialettale e di personaggi che appartengono alle classi popolari. Tutti elementi che fanno già presagire la nascita dell’imminente cinema neorealista, che farà la sua comparsa poco più di un anno dopo con “Roma città aperta”, altra pellicola che avrà la stessa coppia di interpreti protagonisti.
La storia narrata è quella di Peppino (Aldo Fabrizi), un pescivendolo di Campo de’ Fiori che si dà arie da rubacuori, amico di Elide (Anna Magnani), fruttivendola vicina di banco. Peppino è però innamorato di una bella donna della buona borghesia romana, che dopo averlo illuso gli rivelerà di essere sposata, deludendolo ma facendogli finalmente capire che il suo mondo è quello autentico e verace, incarnato proprio da Elide.
Con la partecipazione di Peppino De Filippo nelle vesti di un barbiere, anche in questo film, come nelle altre commedie cinematografiche girate quell’anno, la guerra pare essere del tutto assente, nonostante Roma e l’Italia stiano per entrare nel loro periodo più drammatico, con l’imminente sbarco in Sicilia degli alleati e la caduta del fascismo, a seguito del bombardamento di San Lorenzo, che è solo di poche settimane successivo alla fine delle riprese.
La vera protagonista del film, come si comprende già dal titolo, è dunque piazza di Campo de' Fiori, non ancora diventata luogo della movida notturna capitolina ma che, col suo vivace mercato, le grida dei venditori, le litigate coi clienti, le piccole furberie per raggranellare qualche lira in più, l’animo bonario mascherato da apparente menefreghismo, rappresenta appieno lo spirito popolare romanesco.
Esattamente sessant’anni prima di Giulio Andreotti, che interpretò se stesso nel film “Il Tassinaro” di Alberto Sordi, ci fu un altro primo ministro italiano ad apparire, nei propri panni, tra i protagonisti di una pellicola cinematografica. Si tratta del cavaliere Benito Mussolini, all’epoca abbastanza fresco di nomina, a nemmeno un anno dalla marcia su Roma che lo aveva portato al potere. Il film è la versione del 1923 di “The Eternal City”, remake e riadattamento di una precedente pellicola del 1915, a sua volta tratta da un’omonima opera teatrale di Hall Caine.
Il film del ’23 venne prodotto da Samuel Goldwyn, nome d’arte di Schmuel Gelbfisz, un ebreo polacco che, insieme alla sua troupe americana diretta dal regista George Fitzmaurice e di cui faceva parte la bella attrice Barbara La Marr (una sorta di Marylin Monroe degli anni venti), venne accolto a braccia aperte dal futuro Duce: “Mussolini era così entusiasta del progetto che teneva il suo ufficio aperto per noi a qualsiasi ora”, disse in seguito Il cineoperatore Arthur Miller, ricordando come il duce offrì agli americani tutto ciò di cui avevano bisogno, dalle autorizzazioni per girare in esterni, anche in monumenti storici come il Colosseo, all’aiuto nel fornire attrezzature e comparse.
Le vicende narrate sono quelle di David Rossi e di una donna dal nome simbolicamente evocativo di Roma. I due si giurano amore, ma la vita li separa. David va a combattere nella Grande Guerra, Roma, invece, diventa una scultrice, grazie anche all’aiuto di un potente barone. Alla fine del conflitto, David si unisce ai fascisti e diventa amico di Mussolini. Tornato nella Capitale, scopre l’ambiguo rapporto tra Roma e il barone e, geloso, uccide quest'ultimo. Roma allora si accusa del delitto, per salvare David, dimostrando così di averlo sempre amato. David a quel punto decide di confessare la propria colpevolezza a Mussolini, che gli concederà la grazia, permettendogli così di coronare il suo sogno d’amore con Roma.
Pare che Mussolini abbia contribuito direttamente alla stesura finale della sceneggiatura, inserendo di suo pugno la propria parte, al posto di quella che nella storia originaria era assegnata al Papa, che nel film del 1915 risultava essere anche il padre segreto di David. L’ipotesi dell’intervento diretto mussoliniano è piuttosto verosimile, considerando sia la buona penna da giornalista di Mussolini sia l’afflato filofascista che si avverte in tutta la pellicola, con le camicie nere paragonate a quelle rosse garibaldine, nel ruolo di salvatori della Patria.
Tre napoletani a Roma: Totò, Peppino De Filippo e Giacomo Furia, improvvisati falsari un po’ cialtroni, che si ritrovano furtivamente in una tipografia capitolina per stampare banconote. Diretto da Camillo Mastrocinque nel 1956, è il film che rinsalda il binomio Totò e Peppino, destinato a riscuotere ancora numerosi successi cinematografici.
Tutto ha inizio quando il portiere condominiale Antonio Bonocore (Totò), raccoglie la confessione di un anziano in punto di morte, ex impiegato del Poligrafico dello Stato, che confessa di avere sottratto alla zecca i cliché autentici e la carta filigranata per stampare banconote da diecimila lire. Bonocore, entrato in possesso di quel materiale, sapendo di essere sul punto di venire licenziato dal suo lavoro decide di rivolgersi ad altri due condomini, che ritiene più esperti nel settore: il tipografo Lo Turco (Peppino) e Cardone, un pittore di vetrine (Giacomo Furia). Con loro mette in piedi una banda per stampare e cercare di spacciare banconote false, banda che risulterà però talmente maldestra da finire ben presto smascherata.
Il film venne girato interamente a Roma, per la maggior parte in esterni. Il condominio in cui Totò è portiere, è un grande stabile di viale delle Milizie, in zona Prati-Trionfale. La tipografia di Lo Turco è invece in piazza degli Zingari, al Rione Monti. Altre scene sono girate nell’allora nuovissima stazione Cavour della metropolitana; in un bar di piazza della Suburra, sempre a Monti; al Quartiere Trieste; al Ponte dell’Industria; alla tabaccheria di via di Monte Savello, in centro, dove la banda prova a spacciare la prima banconota; in viale XXI Aprile, dov’è il comando della Guardia di Finanza in cui Totò va a costituirsi; a Villa Gordiani; lungo l’Appia Antica.
Nonostante sia passato ormai quasi un secolo dai fatti, ancora oggi a Roma il nome Girolimoni è sinonimo di pedofilo. Eppure Gino Girolimoni è la vittima di un clamoroso errore giudiziario, un errore presto riconosciuto da chi era incaricato delle indagini, a partire dal commissario Umberto Dosi, uno dei pochi a voler anche partecipare ai funerali dell’ex sospettato, nonostante il nome Girolimoni fosse a quel punto divenuto un marchio d’infamia. Più che di errore giudiziario, sarebbe però corretto dire che Girolimoni fu una delle prime vittime di un’aggressione mediatica, coi giornali dell’epoca che diedero ampio risalto al suo arresto ma non scrissero una riga sulla sua successiva scarcerazione, quando venne dimostrata la sua estraneità ai fatti.
Sulla vicenda umana e giudiziaria di Girolimoni, Damiano Damiani girò un film nel 1972, chiamando Nino Manfredi a impersonare il protagonista. Fotografo e mediatore, Girolimoni venne arrestato con l’accusa di essere l’autore di cinque omicidi dii minorenni avvenuti a Roma tra il 1924 e il 1927. Ebbe la sfortuna di capitare in un momento politico delicato, in cui il neonato regime fascista aveva bisogno di darsi l’immagine di rigido e infallibile garante dell’ordine. Perciò la stampa fu invitata a dare ampio risalto a quell’arresto e fu altrettanto caldamente invitata a tacere sulla scarcerazione, che avrebbe evidenziato come la giustizia mussoliniana non fosse in realtà sempre infallibile. Lo stesso commissario Dosi, convinto dell’innocenza di Girolimoni e intenzionato a smascherare il vero colpevole, fece le spese di quel clima, finendo internato in un manicomio. Solo dopo la caduta del fascismo venne reintegrato nella polizia, facendo una rapida carriera che lo portò anche a capo dell’Interpol.
Nel film di Damiani si ripercorre l’intero iter giudiziario e anche il velleitario tentativo di Girolimoni, prima di ottenere dai giornali una rettifica dopo la sua scarcerazione, poi di trovare il vero colpevole, infine di rifarsi una vita cambiando anche il nome, in una Roma che però lo considerò sempre il mostro inchiodandolo fino alla morte, avvenuta in miseria nel 1961, a quell’ingiusto marchio d’infamia. Una Roma che nel film è raccontata attraverso le riprese dei veri luoghi che videro lo svolgimento dei fatti, da piazza Navona a Palazzo Venezia; attraverso le immagini di alcuni luoghi capaci di ricreare le atmosfere della Capitale anni venti, come il Palazzo delle Esposizioni o l’Istituto Marymount di via Nomentana; infine attraverso gli scorci del centro storico di Albano Laziale, che nel film fungono spesso da vicoli della Roma di cent’anni or sono.