Per preparare i nervetti, che in milanese si chiamano nervìtt, ci vuole tanta ma tanta pazienza.
Se non siete dotati di questa virtù, ammesso e non concesso che di virtù si tratti, se siete nervosi insomma, lasciate perdere. In questo caso, andate giù dal vostro salumiere, che in milanese si dice cervellée, e compratevi un bel scartoccio e che Dio ve la mandi buona.
Non che per il Lissa la pazienza fosse proprio in cima alle sue qualità ma, siccome diceva quel tale che più della fame poté il digiuno, era costretto ad armarsi di santa pazienza.
I nervetti trattasi, come forse noto, di un piatto povero, anzi poverissimo, creato per chi ci aveva tanta fame e pochi ghelli (soldi per non i milanesi) nel borsellino.
Il Lissa faceva così. Prima di tutto andava dal suo amico macellaio Nino e si faceva dare un quantitativo abbondante di piedini e ginocchia dei vitelli poco prima macellati da cui, per i più abbienti, si ricavavano cotolette, nodini, arrosti di codino e filetti. Tutta roba per signori, che in milanese si dice sciori.
Per piedini e ginocchi il costo era quasi nullo, anzi aveva quasi più valore l’involto con cui venivano avvolti e consegnati al Lissa che già pregustava la scorpacciata che ne avrebbe fatto.
Smaliziato da anni e anni di frequentazione della cucina milanese, il Lissa, con le ossa guarnite da cartilagini, si faceva dare anche un bel pezzo di cappello del prete di manzo, perfetto per un ottimo lesso.
Guadagnata la sua cucina, che per quanto piccola era diventata il suo regno dopo che era rimasto a casa dalla fabbrica, il Lissa fiammeggiava su fuoco vivo piedini e ginocchia, che in milanese reciprocamente erano noti come pescioeu e genoeugg, per eliminare eventuali setole e, dopo averli raschiati per bene, li lavava accuratamente.
Metteva poi a bollire in acqua abbondante piedini e ginocchia con l’aggiunta di carota, sedano e cipolla, oltre al tòcco di cappello del prete che, in quanto manzo nobile, avrebbe conferito massimo sapore ai nervetti per essere poi consumato come secondo piatto. Perché, come è noto, nelle cucine che si rispettino non si butta via niente.
Cottura prevista almeno un paio d’ore, dopo le quali i modesti ancorché gloriosi resti del vitello venivano disossati con grande cura per ricavarne filamenti di cartilagine e di tendini al contempo morbidi e croccanti.
Si apriva poi il dibattito su come questi nervetti dovessero essere conditi. Va da sé che non potevano mancare sale, pepe e olio mentre sulla cipolla e su altri ingredienti le scuole di pensiero erano diverse.
Acquisito che l’elemento perfetto per accompagnare i nervetti fosse la cipolla, in milanese scigóla, occorreva definire di quale qualità servirsi. Nei tempi antichi, nelle povere cucine milanesi, faceva da padrona la cipolla bianca sufficientemente aggressiva da meritarsi dopo la consumazione qualche bicchierotto di vino rosso. Più recentemente, con la scoperta nei mercati del nord della cipolla di Tropea, moltissimi si erano a essa convertiti, perché era più delicata e si scioglieva in bocca. Oltre a non vietare l’accompagno con del buon vino.
Il Mario del quinto piano, che era evidentemente più facoltoso, aggiungeva anche un bel pugno di fagioli borlotti lessati così da comporre definitivamente una ricchissima insalata di nervetti.
Il Lissa, che quando era di buon umore non disdegnava anche lui il borlotto, serviva questa sublime pietanza come antipasto della domenica a cui far seguire come secondo una bella fetta di cappello del prete, giusto per santificare le feste.
Ai tempi, non esisteva osteria o trattoria milanese che non proponesse ai suoi avventori sontuosi piatti di nervetti in insalata con la cipolla. Mangiare da re, dicevano, che poteva permettersi anche i poveri cristi. O, se volete, piatto povero… buon ricovero.
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