La cosa fondamentale per fare una buona cotoletta alla milanese è il macellaio. Se non avete un buon macellaio, lasciate perdere.
Per fortuna mia, io conosco il Nino che siamo diventati grandi insieme e di lui mi fido quasi più di me stesso, almeno
sulla conoscenza della carne. Andare in bottega dal Nino è un piacere, con quei bei quarti di bue appesi a ganci poderosi
e i vari tagli di carne, già predisposti per ogni necessità.
Per lo spezzatino con le patate ci vuole il muscolo, striato e non troppo magro, per il lesso o il brasato niente di meglio
del cappello di prete, per la cotoletta alla milanese una bella costa di vitello alta due dita, diciamo un 3 centimetri per i precisini,
con osso regolamentare incorporato. Se non c’è l’osso, lasciate perdere.
So benissimo che sulla cotoletta alla milanese ci sono varie scuole di pensiero. Le mode, in anni che definire bui è un eufemismo,
hanno introdotto l’orecchia di elefante, con la carne battuta con il pestino sino a renderla sottile come un’ostia.
Qualcuno sostiene che la vera cotoletta va cotta nell’olio, qualcuno, sotto l’influenza di un dietologo, azzarda la cottura al forno.
Eresie, sono solo eresie.
Il mio amico Nino la cotoletta la taglia dal carrè del vitello giovane, qualcuno dice che la perfezione sta nelle prime cinque costole,
e ve la consegna in quella bella carta gialla che solo i macellai come si deve usano.
Va da sé che la cotoletta non la puoi mangiare tutti i giorni, si sa che la carne costa, per cui è un piatto per la domenica
o per le feste comandate. Ma quando arriva in tavola, la festa, anche se non è tale, è assicurata.
Allora, mettiamo che il Nino mi abbia dato una bella costoletta di quattro o cinque etti. Mi è scappato costoletta ma non è
un errore perché questo taglio di carne è ricavato dal lombo da cui partono le costole. Adesso che ho sul tavolo la mia bella
carne involtata nella carta gialla, mi dispongo all’opera.
Dalla ghiacciaia, che il frigorifero è arrivato qualche anno dopo con il boom economico, tiro fuori un bel pezzo di burro che
non deve essere smorto, bensì di un bel colore caldo tendente al giallo. Aggiungo un uovo e una montagnetta di pane grattato,
meglio se al momento che così ha miglior sapore. Poi dal vaso sul davanzale prendo tre o quattro foglie di salvia che provvedo
a lavare accuratamente.
Rompo l’uovo in una fondina, sbatto il tutto con la forchetta e poi ci tuffo dentro la carne senza aggiungere sale perché
la mia mamma mi diceva che porta umidità. Faccio un bel bagno all’uovo alla cotoletta e poi la passo nel pangrattato.
Con le mani, senza paura di sporcarmi perché in cucina si usa così, premo ben bene la carne affinché aderisca perfettamente
in ogni sua parte al pane.
Il tocco di burro, abbondante mi raccomando, che ho preparato finisce in una bella padella di ferro. Lo lascio sciogliere
senza farlo diventare mai nocciola e poi aggiungo la salvia e la cotoletta. La cottura è dolce, a fuoco basso.
C’è chi la carne la vuole rosata, allora possono anche bastare cinque minuti; a me personalmente piace un po’ più cotta,
senza esagerare, per cui la lascio nel burro qualche minuto in più.
Sembrerà una contraddizione ma, dopo aver adagiato la cotoletta o costoletta che dir si voglia su un foglio di carta assorbente,
la accomodo nel piatto e poi nessuno mi leverà il piacere di irrorarla con il burro restante. A questo punto, salo e, se mi pare,
spruzzo sopra qualche goccia di limone. Ma questa è una scelta che dovete ben essere convinti di fare. Certo se lì accanto
ci sono delle patate al forno, il pranzo acquista valore, altrimenti va benissimo qualche foglia di insalata che, a Milano,
è tra le poche verdure che si condiscono con l’olio.
L’impanatura è perfetta, croccante e morbida, la carne si scioglie in bocca ed è tutto merito del macellaio. Se siete ipocondriaci
o un po’ depressi evitate di andare in farmacia, passate invece dal Nino e fatevi servire una bella costoletta. Con l’osso. Sulla
cotoletta io ci bevo di solito una buona Barbera del Piemonte che accompagna perfettamente questa delizia della cucina milanese.
Milanese? Certo. Milanesissima. Non state a sentire quelli che sostengono che la vera cotoletta sia quella viennese, quella è un’altra
cosa come dovrebbe sapere anche il Radetzky. Del resto nel 1848 noi cantavamo: “Cinque giorni di battaglia e i Tognitt emm fàa scappà”.*
*Canzone popolare che rievoca le Cinque giornate di Milano. Trad. “Cinque giorni di battaglia e gli Austriaci abbiamo fatto scappare”.
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