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CASTELSARDO E BOSA, DUE GEMME TRA MAESTRALE E MALVASIA


di MANUELA CASSARÀ e GIANNI VIVIANI

Fotografie di Manuela Cassarà

14 Settembre 2020

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Quando sei in vacanza al mare e il meteo è malandrino, si fa di necessità virtù e si passa al piano b: si gironzola.

Da Stintino ci eravamo già giocati Alghero; nelle vicinanze, degno di nota, rimaneva Castelsardo. Il castello, la cattedrale, il museo dell'Intreccio, per la nostra solita toccata e fuga e per un pomeriggio bastavano. E poi Claudio, lo skipper del catamarano, mi aveva raccontato una cosa curiosa su Castelsardo: si parlava in generale dei venti, e di quanto spesso abbiamo effetto sull'umore, specie il Maestrale, così impetuoso, così rabbioso. Castelsardo viene spesso battuta dal Maestrale e perciò, dice Claudio, ha il più alto numero di fuori di testa della Sardegna. Ovviamente non ho avuto modo di verificare. Però per strada c'erano soprattutto turisti.

L'improvvisa vista della rocca, sbucata da una curva, col sole che illuminava l'intreccio di case abbarbicate, tutte colorate, è bastata a mettere in fibrillazione il fotografo che, in casi del genere, anche se al volante, diventa pericolosamente noncurante. I tornanti però non concedevano nemmeno un breve stop, cosa che ha fatto prevalere un insolito buon senso nel conducente. Oltretutto sì è rifatto con diversi scatti poco più in là.


Castelsardo, secondo me, è un falso storico. Nel senso che quelle scenografiche casette color pastello, che da lontano diresti appartengano ad un borgo, antico come il castello che le sovrasta, viste da vicino sono costruzioni abbastanza bruttine, probabilmente degli anni '60 e '70, così a spanna. Con l'eccezione di qualche villa appariscente e più che benestante, in bilico sulla roccia, punteggiata di fichi d'India. Molto californiane. Aggiungete il solito fornito numero di barche nel porticciolo e anche qui non devono passarsela male. Parcheggiare è un incubo, strade strette e salite a cremagliera, peggio che a San Francisco.

Vorrei il premio buona volontà per aver scalato il centro storico, fino al cucuzzolo della rocca. Non ho contato i gradini, ma erano tanti, troppi. Non oso pensare in pieno agosto, col sole a picco. Arrivati all'ingresso, fila per l'entrata, contingentata e centellinata, si aspetta, ordinati, tutti, senza eccezioni, con la mascherina. Febbre misurata prima di fare il biglietto. Molto Covid Conscious. Confesso, io, noi anzi, non siamo tipi da chiese e cattedrali, da rovine e castelli. Se possiamo le evitiamo. Passi per certi templi o qualche pagoda quando siamo all'estero, e nemmeno sempre. C'interessano di più le persone, gli spaccati di vita, gli incontri e i racconti, ma arrivati fin qui, dopo questa faticaccia, bisogna. E il Museo degli Intrecci se lo merita: è ricco, ben presentato, sacro e pagano, arte e quotidiano, antico e odierno, si mischiano con eleganza in pezzi d'artigianato, eseguiti con maestria, di una bellezza senza tempo. Questa cura che ha l'uomo, soprattutto il più povero o il più "selvaggio" nel rendere belle anche gli oggetti più umili, non finirà mai di stupirmi e di farmene innamorare.

Sebbene sia necessario un ulteriore sforzo per farsi altri gradini, imperativo salire sul bastione per godersi una vista spettacolare, con l'Asinara in tutta la sua notevole lunghezza, sullo sfondo. Dopodichè è tutto in discesa. Grande sollievo.

E poi Bosa, due parole anche su Bosa, che è ancora più "chicca" di Alghero, ed è proprio da vedere, se avete senso estetico, e siete sensibili al colore come lo sono io, che non ho altre doti, ma questa di sicuro mi appartiene. Deformazione professionale o forse genetica, non saprei.

Bosa e le sue case color rosa. E non solo rosa, ma anche turchese, zafferano, acquamarina, corallo. Un mix di tinte sorprendenti e perfette. L'ho abbinata a Castelsardo proprio perché ambedue hanno un'atmosfera simile, solo che quella di Bosa è meglio. A proposito d' incontri toccanti, il benvenuto me l'ha dato una signora in età, che vendeva dei bei cestini fatti con carta riciclata abbinata a stoffe di antichi corsetti. Era lì da un po', con il suo banchetto davanti ai giardinetti, con il tempo che metteva al peggio. Presto avrebbe dovuto sbaraccare. E allora, così, per alleggerirle l'umore, le ho comprato un cestino, che non è stato uno sforzo perché era pure molto bellino, e lei per ricambiare me ne ha regalato un altro, più piccino. Ci siamo salutate con la mano sul cuore, sorridendoci con gli occhi, da sopra la mascherina.

Altro motivo per fermarsi a Bosa, la Malvasia, per la quale è famosa. Sono entrata da sola nell'unico negozietto aperto a quell'ora di pranzo: sembrava piccolo, buio e senza pretese, con in vendita svariati prodotti del territorio. Già dalle confezioni si capiva che erano stati selezionati con conoscenza ed esposti con cura. Dietro al bancone un'altra signora in età. Le chiedo una Malvasia qualsiasi; che ne so io di malvasie, me l'ha solo raccomandata un amico che i vini li ama molto: "Se passi per Bosa non andare via senza aver comprato almeno una bottiglia" . Specie per i vini, "è la qualità che conta - mi spiega la signora offrendomene due per l'assaggio - una costa meno ma vale anche meno. L'altra, è speciale. È conosciuta nel mondo, ha vinto dei premi. Ma è più cara. Parecchio più cara. Le provi tutte e due, poi vedrà lei."

Il primo bicchierino ha un colorino limpido paglierino, che mi ricorda molto qualcosa. Va giù indegno di nota. L' altro ha un colore ambrato, quasi avesse affogato un raggio di sole. Ha un sapore caldo, avvolgente, seducente. Non ho mai pagato così tanto per mezzo litro di qualcosa, ma lo faccio, prima che torni il fotografo, che invece riappare in quello stesso momento e subito mi guarda sospettoso con la classica espressione del "ti sei fatta fregare". Gli passo il bicchierino, assaggia e si ricrede. Esco rivalutata, normalmente sono quella dal braccino corto, in famiglia.

Mi sono documentata e ora trasmetto con piacere un po' del mio improvvisato sapere.

La Malvasia, la mia malvasia, è un vino ossidativo, che poi sarebbe una reazione chimica "con la capacità di creare frontiere aromatiche sempre più nuove e intriganti". Vengono definiti vini ossidativi: la Vernaccia di Oristano, la Malvasia di Bosa e il Marsala. All'estero sono ossidativi il Vin Jaune, il Madeira e lo Sherry.Tre icone di fama mondiale.

Concludo citando Slow Wine di Slowfood: "Immaginate un vino fuori dal tempo, innervato nel suo corpo liquido, di mare, di storia, ossigeno e capacità umana. Provate a metterci il naso dentro, magari concedendovi un retorico abbassamento di palpebre, e poi bevete. Capirete, forse, come una definizione ormai consunta quale vino da meditazione possa essere entrata nell’immaginario popolare per definire i vini ossidativi".

Ditemi, potevo resistere?

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