Fotografie di Gianni Viviani
16 Settembre 2020
Cabras - Terra di Giganti dice la segnaletica. E di camper, aggiungo io. Causa Covid? Probabile. Senza nulla togliere a questo splendido Sinis - una riserva naturale riconosciuta persino dalla Ue come un piccolo Eden, che ci ha subito conquistati - sono davvero tanti. Anche i ciclisti. Ma i ciclisti hanno l'aria più girovaga, con i loro borsoni.
In effetti il turismo non manca, ma è ancora poca cosa a confronto di Stintino o peggio, della Costa Smeralda, due tappe scontate che andavano fatte, essendo noi neofiti della Sardegna. Il Sinis ci sembra più adatto a noi, più autentico. Le coste sono selvagge, paradisiache, libere da costruzioni. Non so quanto potrà durare, l'autenticità, intendo.
"Ma no, conosciamo uno di qui che è tornato a casa dopo 40 anni, e dice che non è cambiato nulla": la coppia di mantovani, fedelissima di Cabras da quattr'anni, con l'aria di saperla lunga, non ha dubbi. Sarà. Ma a me tutti questi cartelli di Agriturismi, ex aziende agricole convertite al turismo come quella che ci ospita, saltano all'occhio e mi sembrano tanti. Non che sia un male, è una forma di ospitalità cordiale, autoctona, come la formula di albergo diffuso o l'ittiturismo, che rispetta il territorio e aiuta l'economia.
Siamo arrivati a Cabras col botto: tra tuoni, lampi, fulmini e saette. Cecilia, la nostra ospite al Sa Crannaccia, ci ha aperto scalza, senza mascherina e con l'aria di chi stava facendo la siesta. Vero che ci siamo scelti un posto ruspante, rurale, ma la prima impressione non è stata rassicurante. E neanche la seconda. Poi, come a tutto, ci siamo adattati: la stanza è piacevole, i mobili della nonna, il letto in ferro è comodo e pulito, il giardino silenzioso, il frutteto rigoglioso, la colazione generosa, ma sul Protezione Covid non gli darei manco due faccine su Booking.
La prima sera, cena al Leopardi, l'unico ristorante che ci ha accolti nella tormenta. Per entrare nello spirito del luogo ci siamo dati il benvenuto con un antipasto di bottarga di muggine tagliata al coltello, servita con delle minute rondelle di sedano e un filo d'olio locale. Sul pane carasau, una delizia.
"A Cabras - ci aveva consigliato Costantino di Stintino - c'è la bottarga migliore, ma compratela solo allo spaccio dei pescatori. Al laghetto. Sempre che ne abbiano ancora". Pare che in quel lago dall'aspetto melmoso, o forse proprio per quello, i muggini trovino il loro habitat ideale e delle alghe, o qualsiasi cosa mangino i muggini, che li fanno diventare belli cicciottelli. L'oro di Cabras la chiamano qui, dove ha sicuramente contribuito a migliorare l'economia, se non ad arricchirla.
Cibo povero, nutriente, duraturo, con origini che si perdono nella notte dei tempi, fino ai Fenici, tutt'ora essiccata all'aria alla loro maniera. Le due sacche di uova color ambra vengono messe sotto sale per qualche ora, poi al sole per mesi. O, come è più probabile oggi, in un laboratorio ventilato per una settimana.
Ora capirete che con tutte queste credenziali, per non farcela scappare, di buon mattino, che per noi ormai non è mai prima delle dieci, ci siamo per così dire precipitati allo spaccio, previa colazione con torte e marmellate fatte in casa e frutta appena raccolta. Scongiuro mattutino necessario: vade retro Covid, perché la cara Cecilia, donna ruspante, ha un rapporto casuale con la mascherina.
Mentre allo spaccio persino dei rudi omaccioni fanno la fila distanziata, e con la mascherina, loro. Entrano rispettosi, uno alla volta e i più ne escono con un bel cartoccio di muggini e ombrine. Quando è il nostro turno ci assicuriamo due confezioni di bottarga locale, e che sia tale ce lo dice il packaging arancione e il prezzo, € 250 al chilo. Ormai abbiamo sposato la linea dell'eccellenza, non vacilliamo e la compriamo, pregustando futuri piatti di spaghetti.
Il tempo è ballerino, pioggia in arrivo, e lo dedichiamo alla cultura. Iniziamo con le rovine di Tharros, luogo con molte anime, villaggio nuragico, colonia fenicia fondata 8 secoli avanti Cristo, porto cartaginese, città in età romana, capoluogo in età bizantina. Luogo sacro sempre, però del tempio monumentale sono rimaste solo due eleganti colonne corinzie, davanti al mare. Da sacro il sito si fece profano quando arrivarono i più pragmatici Romani, che lo trasformarono in villaggio termale. Non abbiamo approfondito più di tanto, come da nostro superficiale solito, ma ci siamo accontentati di girarcelo a piedi, mano al cellulare, per provare a documentare quella bellezza spettacolare, quella luce speciale. Giornata dedicata alla cultura, va bene, ma non senza una meritata pausa davanti ad un pregevole piatto di cozze al S' acqua Mala, posto che vale la pena annotare, sulla spiaggia di Maimoni, luogo affascinante di dune e odori meravigliosi, dove torneremo.
Segue il Museo Civico, struttura piccola e ben tenuta, dove sono esposti i Giganti del Mont'e Prama, endemici della vicina necropoli prenuragica, datati VIII secolo avanti cristo. Giganti, sarebbe più onesto dire "gigante" perché i più se li è accaparrati il museo di Cagliari, mi hanno fatto notare con una certa acredine. Sculture alte due metri, imponenti, carismatiche; la forza, la potenza, la determinazione belligerante che ancora trasmettono, sicuramente doveva fare effetto sui nemici. Forse proprio per annientarne la potenza mani sacrileghe, ad un certo punto, si sono operate per smantellarli e farceli ritrovare sparsi a pezzi. Dei colpevoli, nei secoli, nessuna traccia.
Come per i Vichinghi, anche in Sardegna, gli onori post mortem venivano riservati solo ai guerrieri o agli atleti. Alle donne, al massimo, venivano dedicati pochi centimetri di pietra scolpita: piccole statuette boteresche che le raffigurano tozze e sovrappeso.
Per finire, cena pantagruelica da Cecilia, che è un esserino caloroso e generoso, e che non lesina sulla quantità. Va anche riportata, per amor di verità, una miglioria sul fronte anti-Covid: il distanziamento c'era e sono comparse pure le mascherine.
Oggi, secondo giorno, per limitare i danni di ieri abbiamo saltato colazione e pranzo, in attesa di rifarci stasera al Sa Bell'e Cabrasa, raccomandatoci dalla gentile tintora alla quale avevo affidato le tante patacche accumulate.
Cielo azzurro, cielo da spiaggia, e rotta per Is Arutas, una distesa senza fine, famosa per la renella di quarzo bianco che ricorda dei chicchi d'orzo.O il sesamo non tostato. Sebbene ci siano delle alghe, come ci avevano anticipato, sono poche e soprattutto sul fondo. L'acqua è limpida e calda, e il posto isolato è perfetto per i camper, che sono parecchi, allineati in una fila ordinata, così vicini da essere congiunti. Ma il sole picchia e le nostre pelli ancora color caciotta necessitano un break. Lo facciamo dove almeno c'e' un bar, a Putzu Idu che io definirei "la Iesolo del Sinis". Non per numero di lettini a pagamento, che qui non si usano - la gente del luogo preferisce il più incasinato metodo del "mi metto dove mi pare" senza pagare - ma per l'arenile setoso, la sabbia finissima e un mare a misura di soldi di cacio. Devi camminare per farti una nuotata, ma sull'Adriatico un' acqua così se la sognano.
Cena in piazza, a Cabras, che è una cittadina senza frilli, dove il turismo non ha ancora lasciato il segno, dove se sei portato allo shopping ci rimani male, perché non trovi una boutique e come souvenir c'è solo la bottarga, ma che la sera si anima e perde quella piacevole sonnolenza diurna.
Non bella come la vicina Nuraghi, con la tipica sfilza di casette piano terra, o surreale come la spettrale San Salvatore, un piccolo luogo di polvere e povere case, che ha per fulcro l'ipogeo dedicato al Santo. Luogo di culto appartato e desolato, con una storia strana e breve di location per "spaghetti western", che si anima una volta l'anno, nella prima settimana di settembre, con una novena che ricorda la fuga degli abitanti dai feroci saraceni per mettere in salvo l'effige lignea del Santo. Per l'occasione le donne ritrovano i loro costumi tradizionali e gli uomini, i curridoris, corrono scalzi, coperti solo con corti camicioni bianchi. E noi, naturalmente, ce la siamo persa.
Ultimo giorno e siamo tornati sulla spiaggia di Maimoni, che ci ha accolto presto, erano solo le 11, con un mare da Maldive che dava dei punti persino a Stintino.
Occhi socchiusi sull'orizzonte, mente in pappa, acqua trasparente, sabbia di quarzo, ci si rilassa. Il vento è apparso verso l'una, l'ora di tornare da S'acqua Mala per un paté di bottarga, molto simile alla taramosalata greca, giusto per spezzare la giornata fino a cena, da Attilio, detto Attilietto.
E dire che domani, proprio ora che incominciavamo a godercela, si parte.