Fotografie di Gianni Viviani
19 Settembre 2020
Doveva essere l'ultimo raccontino di questo diario sardo Covid Style, e invece, presi dalla foga, anche fotografica, ecco la breve storia di una ancor più breve permanenza nell'arcipelago del Sulcis.
Iniziamo da Sant'Antioco e mettiamo le cose in chiaro: preferisco Carloforte!
Primo giorno, trasferimento. Giorno due di tre; la giornata prende una piega traversa, ma non ci perdiamo d'animo. Sappiamo adattarci, va detto a nostro onore e merito.
Primo disappunto, la gestione del B&B La Posada, dove quella volpona della padrona di casa mantiene un atteggiamento spudorato e disinvolto verso il Covid, nonostante sia pure incinta. Prendere nota: una piscina che non c'era, perché era in realtà in casa sua, quindi trattavasi di uno specchietto per le allodole, poi un bagno senza aerazione, una colazione apparecchiata per sei nella micro cucina quasi fossimo i nanetti di Biancaneve, e infine lei sempre allegramente senza mascherina. Al ritorno ci faremo un bel tampone, sicuro sicuro.
Secondo disappunto, il traghetto delle 10,20 per Carloforte, perso perché siamo i soliti tiratardi. Quindi andremo domani.
Poi il colpo di grazia: il fatto di perderci anche il Museo del Bisso, di Chiara Vigo, che museo non è più, dato che dal 2016 il Comune ne ha forzato la chiusura, e vorrei approfondire pure il perché. Ora è possibile apprezzare le sue opere solo nella stanza che fu il laboratorio di sua nonna, e solo su prenotazione . Prenotazione che si ottiene chiamando un numero al quale la signora, né ieri né oggi, risponde. E nemmeno alle mail.
Peccato, mi sarebbe piaciuto incontrare questa artista, un po' maga e fattucchiera, che ricava dalla Pinna Nobilis - una bivalve che può raggiungere anche il metro - una bava serica dalle iridescenze dorate, che poi fila e tesse in splendidi arazzi. Non potendo fare di più, riporto la dicitura esatta che consente di trovare il sito: EcoMuseo del Maestro di Tela Chiara Vigo. Vale la pena dare un'occhiata.
E così siamo rimasti a Sant'Antioco. Ligi al compito di documentare questa vacanza, ce la siamo girata in lungo e in largo, per verificare tutte le spiagge, in senso antiorario.
Si parte da Calasetta.
La prima spiaggia detta Sotto la Torre, la vediamo solo dall'alto, da sotto la torre sabauda; è piena di alghe ed esposta al maestrale. Passiamo oltre.
Poi La Salina, carina. Proseguiamo. Poi Cala Grande, lo dice la parola, attrezzata e meno battuta dal vento. Ci fermiamo.
Continuamo spinti dal sacro zelo. Prima fermata, Cala Lunga, previa sterrata, un bel fiordo selvaggio. Bisogna portarsi tutto, ma è affascinante.
Segue Cala Sapone, questa è sulla strada, si ferma persino l'autobus; è calma, attrezzata, accogliente e poco frequentata. Ci piace.
Arriviamo fin sulla punta, a Torre Canai giusto per metterci una tacca; risaliamo verso Coaquaddus, che sembra un nome azteco e, dall'alto, è molto spettacolare: l'azzurro variegato, le rocce, l'orizzonte. Da tenere decisamente presente.
Si prosegue per Maladroxia, che è un piacevole piccolo centro, quindi c'è di tutto, bar e baracchini, e persino un encomiabile punto di accesso e di servizio per i diversamente abili.
Cena ai Due Fratelli, coperativa di pescatori dove se la tirano manco fossero Cannavacciuolo. Ci relegano all'interno, per un loro inspiegabile disegno, ma la qualità c'era.
Secondo giorno: si va a Carloforte e, dopo un alzataccia alle 8, vissuta con malcelato dissenso dal bradipo compagno di viaggio, c'imbarchiamo. Rigorosamente richiesta la mascherina. Traghetto mignon, da tenerne conto nei giorni di piena.
Tutti a farsi i selfie, cosa che, con metà faccia coperta, è abbastanza ridicolo, ma noto un impegno nel concentrarsi sull' intensità dello sguardo.
Una volta sbarcati ci si sente, stranamente, sul continente, perché qui, cari figgeui, si parla il tabarchino, un dialetto similgenovese, nome derivato per ricordare quegli avi immigrati da Sestri per lavorare il corallo che, nella metà del'700, si erano trasferiti a Tabarka, oggi a sovranità tunisina. Luogo dal quale, per i soliti cambi di potere, i più fortunati furono semplicemente sbattuti fuori, mentre i meno furono fatti schiavi, in seguito riscattati dal re Carlo Emanuele III. Grati e ad imperituro ricordo, rimane la statua che troneggia sul lungomare e il nome di questa cittadina, unica sull'Isola dei Conigli: Carloforte, dal 2006 comune onorario della città metropolitana di Genova.
Carloforte è graziosa, ligure in certo senso, ricca di negozietti e bar e ristoranti, turistica, l'opposto di Cabras, per intenderci. Doveroso l'acquisto del rinomato tonno.
Con le solite poche ore e le dritte di Assunta, l 'amica di un'amica, carlofortina di elezione - dopo una breve visita circa vent'anni fa, colpita dalla sindrome di Stendhal, ci è tornata e non è più ripartita - ci dirigiamo verso la raccomandata Punta delle Tonnare, posto fascinoso e spettrale; desistiamo per Cala Fico che sarà stata pure magnifica ma richiedeva un percorso adatto solo ad un carretto e infine raggiungiamo lo spettacolare Faro di Capi Sandolo, di cui lasciamo fornita traccia fotografica.
E per finire, pausa ristoratrice per un bagnetto che poteva essere alla Bobba solo facendoti paracadutare, perché non c'era un buco di parcheggio; per cui dopo breve scapicollata per uno sconnesso e scoceso sentiero, abbiamo trovato una goduria alternativa nella caletta Guidi, un minuscolo anfratto con acqua delle meraviglie.
Carloforte ha molto da dare e molto ci sarebbe da dire. Ma torneremo.