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LE PATRIE
DEL CIBO
E L'ILLUSIONE
DOP

Come nascono e come si affermano le denominazioni di origine? Dal crostaceo rosso di Mazara alla cipolla di Tropea alla caciotta di Pienza, sembra facile dare una patria agli alimenti. Ma l'apparenza inganna. Spesso prevale il nome del centro di smistamento, o l'idea suggestiva, o il luogo evocativo...

di ALBERTO GRANDI

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La notizia, di questi tempi, è che il famoso gambero rosso di Mazara del Vallo in realtà non esiste. Come è prassi in questi casi, alla banale constatazione di carattere biologico è seguita una violentissima polemica che sta tra il politico e il gastronomico; perché per molti italiani mettere in discussione la storicità e la superiorità dei nostri prodotti significa minacciare la nostra economia e soprattutto la nostra stessa identità.

Lasciando da parte queste discussioni, magari con il proposito di tornarci in futuro, da storico sono molto più interessato a capire come sia nata la denominazione “Gambero rosso di Mazara” e capire perché abbia avuto così tanto successo. A prima vista, infatti, la faccenda potrebbe sembrare molto semplice; c’è un prodotto molto buono che viene fatto, raccolto o pescato in un determinato luogo ed è quindi naturale che quel prodotto assuma il nome del luogo stesso: “caciotta di Pienza”, “prosciutto di Carpegna”, “anguilla di Comacchio”, “lenticchia di Altamura” e così via. Ma, come spesso accade, le apparenze ingannano.

Il primo problema è quello dei confini: dove si smette di produrre il prosciutto di Parma e si comincia a produrne un altro, che per definizione deve essere di qualità inferiore? Determinare l’area di produzione di una denominazione è sempre un atto arbitrario, legato a logiche economiche, più che a vere considerazioni di carattere storico e culturale.

Questo meccanismo, del resto, ce lo ha spiegato molto bene nientepopodimeno che Carlo Marx, quando nel III libro del Capitale descrive il meccanismo che trasforma i maggiori profitti ottenuti dai produttori di Champagne in maggiori rendite fondiarie per i proprietari dei terreni su cui si coltivano le vigne. Ne deriva che la determinazione di un’area di denominazione sarà sempre il compromesso tra i produttori (che vogliono poter produrre sempre di più) e i proprietari terrieri (che al contrario vogliono impedire l’allargamento dell’area per massimizzare la loro rendita). Con buona pace per tutti i discorsi sulla qualità dei terreni, sul microclima, sul know-how e così via.

Quindi, una volta stabilito che la denominazione ha sempre confini artificiali, siamo punto e a capo; resta da capire perché si decida di dare una specifica connotazione geografica a un prodotto che in realtà potrebbe averne molte altre. Da questo punto di vista storicamente scattano due meccanismi che possono essere alternativi, ma anche complementari. Il primo è quello più semplice: il prodotto assume il nome dell’articolazione infrastrutturale che ne consente la diffusione, vale a dire un porto, una stazione ferroviaria, un importante snodo stradale. È il caso, ad esempio, della cipolla di Tropea, che a Tropea non si produce ma che da Tropea è sempre partita per la contemporanea presenza di un importante scalo ferroviario e di un altrettanto importante porto marittimo. Qualcosa di simile, del resto, deve essere accaduto per il celebre “Parmigiano”, visto che il termine indica ciò che viene dalla città e non dalla provincia, ma, come è ovvio, le mucche si allevano in campagna e i caseifici di città non sono mai esistiti. Quindi il nome indica il luogo di partenza del formaggio, non il luogo di produzione: la via Emilia e la linea ferroviaria Milano-Bologna fecero di Parma il centro di smistamento e spedizione di un prodotto che veniva realizzato in un’area estremamente ampia e indefinita, ma che di sicuro non aveva la provincia di Parma come fulcro centrale, almeno fino all’inizio del ‘900.

L’altro meccanismo è quello di trovare un luogo particolarmente evocativo, sul quale si possa costruire una narrazione suggestiva. È questo il caso del lardo di Colonnata, che per evidenti motivi di spazio a Colonnata non si può produrre, se non in quantità irrisorie, oppure del vino di Bolgheri, che grazie alla notorietà del piccolo borgo, finisce per dare il nome a una produzione che non può essere fatta in quel luogo specifico.

(Mazara del Vallo)

E il gambero di Mazara? Questo è proprio il caso in cui i due elementi si sommano e si rafforzano a vicenda. Da un lato c’è un porto estremamente sviluppato e specializzato nella pesca commerciale e dall’altro c’è una storia quasi epica di pescatori costantemente in bilico tra Europa e Africa. Mazara è un luogo evocativo nel quale si incrociano storie millenarie e culture differenti; è quindi stato facile inventarsi una narrazione e il nome di un prodotto. Si è sempre detto che il gambero rosso provenga dalle acque immediatamente frontali le coste di Mazara del Vallo; niente di più falso: questi crostacei, dalla carne squisita e succulenta, arrivano per la maggior parte dai mari della Libia, a centinaia di chilometri di distanza dalla Sicilia.

Uno storico dell’alimentazione non può che sorridere della levata di scudi e dell’indignazione generale, perché sa benissimo che da sempre il cibo più buono non è di chi lo produce, ma di chi lo sa vendere.





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