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VERDE DI SCOZIA
CASTELLI
E MALEDIZIONI
NELLA TERRA
DI MACBETH

Un viaggio in due puntate in un paese affascinante. Da Edimburgo a Inverness, da Cawdor al Loch Ness, dalle chiuse di Fort Williams a Eileen Donnan. Le sorprese della guida a sinistra, la voglia di raggiungere l'isola di Skye. Ma all'improvviso ...

testo e foto di MANUELA CASSARÀ e GIANNI VIVIANI

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Il verde di Scozia. Esiste, come colore? Se non c’è, dovrebbe.

Perché quella sfumatura mi è rimasta nella retina. È il ricordo che mi porto nel cuore di quattordici giorni di un tour scozzese che non sono sempre andati per il verso giusto. È la sensazione che compensa la frustrazione. È il verde brillante di un’erba punteggiata da pecore e mucche cornute con la frangetta, di prati nutriti dalle nuvole; nuvole che ci risparmieranno durante la nostra prima settimana, ma che si accumuleranno sulla nostra testa, cariche di pioggia e di iella, per i giorni restanti della nostra impegnativa vacanza.

Ma iniziamo, come dico sempre in questi casi, dall’inizio.


Iniziamo dall’arrivo in aeroporto dei nostri compagni di viaggio, atterrati qualche ora prima di noi e di come, per una svista entusiasta, si siano impossessati di una valigia del tutto identica alla loro. Ricevuta la telefonata dal legittimo proprietario che la reclamava, sarebbe dovuto seguire uno scambio, invece era stato solo un reso, perché la loro avrebbe continuato a girare sul nastro trasportatore, per poi finire accatastata tra centinaia di altre.

E allora qual è il problema?, verrebbe da chiedere; ci sono i codici a barre, i numeri di scontrino… No, cari, non a Edimburgo, che è 4.0 alla partenza ma non agli arrivi.

Primo consiglio non richiesto: sempre marchiare il proprio bagaglio. Sempre. Meglio se in modo strano. Perché a determinare il fortuito ritrovamento del suddetto, a 36 ore distanza, sarà proprio una provvidenziale etichetta, guarda caso verde, acquistata in Islanda, con il cartoon di una simpatica donzella vichinga. Date retta a una che, essendo l’unica del gruppetto a parlare inglese, ha passato le sue prime ore in Scozia in penose interazioni con una molto scazzata, e parecchio sfruttata, addetta al recupero dei bagagli smarriti in quel maelstrom di valigie che nel frattempo si erano accumulate.

(Balmoral e la banda)

Dopo aver bruciato, tra rimostranze, ricerche e shopping di beni essenziali, la prima giornata a Edimburgo dedicata all’assistenza degli sfortunati compagni di viaggio, ritrovata per miracolo la pecorella smarrita la mattina seguente, entrati anche in possesso del nostro lussuoso mezzo di trasporto, una Mercedes di ultima generazione, siamo partiti alla volta del Parco nazionale di Caingorms, nelle Highlands, con il Castello di Balmoral come principale attrazione.

Il primo impatto con la guida a sinistra, seppur facilitata dal cambio automatico, aveva comportato riadattare il cervello a nuovi approcci spaziali, e significato che tre paia di occhi, quattro con quelli del guidatore, stessero all’erta per scandagliare il traffico a 360 gradi. Non si può dire che quella prima tratta sia stata rilassante.

Eravamo arrivati al Castello sotto una pioggia scrosciante e avevamo temuto che la Banda di cornamuse in pompa magna non ci avrebbe accolto con l’annunciato riguardo. Balmoral manca forse di apparente grandeur, ma come la recente serie The Crown e il film The Queen con il premio Oscar Hellen Mirren insegnano, è il luogo dove Elisabetta II e famiglia hanno da sempre amato passare le loro estati, tra camminate, picnic e battute di caccia. Incluso quelle al magnifico cervo reale, così detto per le sue dodici corna; cosa che trovo riprovevole, specie dopo averne ammirato la dignità e maestosità nel dipinto icona di Edward Lanseer nella Scottish National Gallery di Edimburgo. Per la cronaca, da Luglio fino a fine Ottobre la notevole macchina di ricezione turistica si ferma e le visite al castello sono precluse per permettere alla Sovrana di goderselo in santa pace.

(La Scottish national gallery)

Vorrei aprire una parentesi sui Castelli, che stanno alla Scozia come il Vesuvio e il Colosseo al nostro Paese. Voglio dire: fanno ambience!

Anche se i più sono diroccati. Alcuni, bisogna dire le cose come stanno prima che qualcun altro ci caschi, sono vere sòle, come quello di Glenbuchat, trovato su un qualche itinerario scopiazzato: un paio di mura diroccate seminascoste da impalcature, scovate dopo una farraginosa ricerca, causa navigatore che dava i numeri e liquidate con un sonoro “ma vaffanculo” all’unisono di tutti noi quattro occupanti Mercedes, che ormai chiamavamo per nome, perché così si fa, pare, quando hai una Mercedes.

Per entrare nello spirito del luogo, la cena nel nostro B&B di Kingussie l’avevamo conclusa con un bicchierino di Drummore, un morbido whisky non troppo torbato di 12 anni che aveva soddisfatto le papille gustative dei nostri amici, e di un Drambuie per me. Al risveglio ci avevano dato il buongiorno un cielo insolitamente azzurro e una luce cristallina; incerti su come passare il tempo, avevamo accettato il consiglio di visitare il vicino Highland Folk Museum di Newtonmore, un’attrazione per grandi e piccini: casette di torba e paglia e più recenti dimore piccolo borghesi trasportate da diversi angoli della Scozia, mantenute con cura, con convincenti comparse a rendere il tutto più realistico: la maestra di scuola, il vecchio lattaio, la cardatrice di lana. C’erano anche la stazione, l’ufficio postale, il club della locale squadra di Shinty, sport che non avevo mai sentito nominare e che invece pare sia praticato fin dalla preistoria, progenitore dell’Hockey, esportato sotto altri nomi fino in Irlanda, Canada, Nuova Scozia, e Svezia. Dodici giocatori che inseguono un palletta di lana di pecora ricoperta di cuoio, avvolta intorno ad nucleo di sughero, che ha tutta l’aria di fare parecchio male se intercettata senza la provvidenziale mazza.

(Assaggini di whiskey di Oban)

Ci sarebbero, ci avevano consigliato, numerose camminate da fare nei dintorni, con facili circumnavigazioni d’idilliaci specchi d’acqua; avevamo optato per quello meno faticoso, il Loch an Eilein, un posticino affollato da famiglie con masnade di bambini vocianti, allegri bagnanti in un’acqua plumbea che metteva freddo solo a guardarla e coppiette in amorosi cheek to cheek, abbracciati sulle loro coperte da picnic. Guardando con molta cura, tra i rovi, si riuscivano a scorgere le rovine di un altro turrito castello, a pochi metri dalla riva. Niente di che.

La mattina seguente gli spiriti erano ancora alti, fino a quando non era sceso l’amico driver a fare anche lui colazione, distrutto da una notte insonne passata a tossire. Eroicamente aveva nondimeno ripreso il suo posto alla guida. Questo perché, avendone sempre avuta una in patria, il suo rapporto con Mercedes era decisamente più avanzato di quello del beneamato, che non ne aveva mai, né ne avrebbe mai, guidata una. Partiti in direzione Inverness, prima tappa al Castello di Cawdor. Aperto al pubblico per gentile concessione della Contessa Vedova: giardini, labirinto e campo da golf compresi, il tour includeva anche gli appartamenti privati, almeno stando alle foto di famiglia in bella vista sui mobili. C’era di che invidiarli. Da 600 anni il Castello di Cawdor appartiene al casato dei Campbell; ma il suo nome è citato da Shakespeare nel Macbeth, dove il protagonista è anche il Thane di Cawdor;(thane: colui che riceveva le terre dal Re, o anche il capo di un Clan).

(Le scale a Cawdor)

Una licenza poetica, quella del Bardo, perché all'epoca della tragedia, nell'XImo secolo, il castello ancora non era stato costruito. Lo sarà solo a metà del 1300, intorno ad un agrifoglio, uno dei sette alberi sacri nella mitologia celtica. Leggenda vuole che il sesto conte di Cowdor avesse deciso di fare erigere una nuova torre. Attenendosi alle istruzioni ricevute in sogno, aveva affidato a un mulo una pesante carriola carica d'oro; il luogo dove la povera creatura avesse dato forfait, sarebbe stato il posto prescelto. Il povero mulo, dopo averla trascinata per un po’, stracco dalla fatica era stramazzato all'ombra di un alberello, il cui ligneo zeppetto è oggi consacrato ai posteri nei sotterranei, a riprova che non si tratta solo di dicerie tramandate.

(Inverness)

Bypassata Inverness, città ventosa e affascinante alla foce del fiume Ness,che avrebbe meritato ben di più di un’occhiata fugace, avevamo proseguito in direzione Loch Ness con meta Fort Augustus e stop over al Castello di Urquhart, o quel che ne rimane. La sua posizione sul Loch Ness lo rende particolarmente fascinoso, specie da lontano. Dopo aver letto il Cerchio Celtico di Bjorn Larsson, l’ho rivalutato. A saperlo prima l’avrei guardato con altri occhi; occhi affascinati dalle leggende celtiche che il libro racconta in una specie di thriller. Comunque è un’abitudine, la mia, quella di leggere i libri di viaggio solo al ritorno. Ogni volta mi pento. Il libro non è un capolavoro, lo stile lascia desiderare, ma la storia è intrigante, soprattutto se siete degli skipper intrippati con i Mari del Nord, e parla effettivamente della maggior parte dei luoghi dove siamo passati e soprattutto, vedi le Ebridi, dove saremmo voluti andare se la sfiga malandrina non ci avesse perseguitato. Il caldo che spaccava le pietre e una masnada di turisti vocianti che spaccava ben altro avevano finito di sfinire il guidatore che, ormai febbricitante, sembrava sul punto di svenire.

(Il castello di Urquhart)

Arrivati a Fort Augustus si era accasciato in camera fino al mattino seguente, quando tornato tra i vivi, dopo massicce dosi di tachipirina e con il probabile virus che nel frattempo era migrato nelle narici del beneamato, decisi a non farci abbattere dagli eventi, avevamo passato un’oretta a ficcare il naso sul funzionamento delle chiuse del Canale di Caledonia, preso d’assalto da una lunga fila di natanti vacanzieri. Dopo un’ultima occhiata, o almeno così allora credevamo, alla punta terminale del Loch Ness, eravamo partiti in direzione dell’Isola di Skye, che già pregustavo come uno dei piatti forti della nostra vacanza.

(Le chiuse di Fort Williams)

Piano con le aspettative, mia cara, possono attrarre l’ira divina.

Lungo il tragitto, fermata al Castello di Eileen Donnan. Sicuramente un luogo tra i più fotografati, iconici e scenografici, costruito su un’isoletta su cui convergono tre laghi. Eileen vuol dire isola in gaelico, mentre Donnan era un Santo irlandese fondatore di una piccola comunità cristiana. Il castello, restaurato nel primo trentennio del Novecento, era stato aperto al pubblico nel 1955 e da allora attrae annualmente 300.000 visitatori. Attuale residenza privata del Clan Macrae, ha una storia lunga e complessa, ma dato che sono frivola mi limiterò a citarne solo le apparizioni in film come La Vita Privata di Sherlock Holmes, Elizabeth, the Golden Age, Highlander– L’Ultimo Immortale, Entrapment con Sean Connery e Zeta Jones, e ne Il Mondo non Basta con Pierce Brosnan. Bella foto garantita dai riflessi del cielo e della marea; lo abbiamo guardato da lontano, perché se in Scozia tutti i musei sono gratis altrettanto non si può dire dei castelli, ruderi o meno, che invece fanno pagare a caro prezzo il privilegio di uno scatto, anche solo dal ponte per raggiungerlo. Suppongo sia per il fatto di essere proprietà private e perché mantenerli non deve essere indolore. Comunque, in questo caso, più per il fattore tempo che per il bieco denaro, c’eravamo limitati ad ammirarlo da lontano, tramezzino alla mano.

(Il castello di Eileen Donnan)

Di sicuro io non sono una che si piange addosso, sono un’ottimista che vede sempre il bicchiere mezzo pieno perché così mi ha fatta madre natura, una che di fonte alle difficoltà intigna per risolverle e le affronta con la foga di un Don Chisciotte, ma dopo quanto ci è successo a Skye ho incominciato a pensare di affidarci ad un’ esorcista.

Tenetevi forte per la prossima in arrivo.

Avevo messo il navigatore del cellulare per rintracciare il nostro alberghetto vista mare di Portree, perché Mercedes (mi riferisco a quello in dotazione alla macchina) credo che sia una snob perché non tiene in considerazione i B&B. Per un motivo che non riesco a spiegarmi, il dannato Samsung invece di condurci al pittoresco porticciolo ci ha guidato in un bucolico nulla attraverso una serie di impervie stradine campagnole, fino a quando, al suo laconico “svolta a destra” è stato preso alla lettera dall’amico driver il quale, con un’imperiosa sterzata, si è scontrato con uno stanziale pilastrino di mattoni, sradicandolo dalle zolle erbose e facendo accasciare sul fianco, come una balena spiaggiata, la povera Mercedes, il semiasse probabilmente spezzato...

(1 - CONTINUA)





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