Da Scilla a Torino:
quando il gommone era un'auto vecchia
Nel 1973 Lucio Dalla decide di abbandonare i Bardotti, i Baldazzi, le Pallottino (e già c’era stato Sanremo e “Quattro marzo”…) e di aprirsi alla denuncia sociale e alla poesia scabra e immaginifica di Roberto Roversi, direttore di “L’Officina” e di “Rendiconti”, lontano mille miglia dal mondo e dalla industria della canzone. Non poteva sapere Lucio, ma da lì a poco lo avrebbe saputo, che quella collaborazione sarebbe stata in realtà una scazzottata durata tre album, con esiti altissimi e contraddittori, culminata in un volume di Savelli del 1977 e nel drammatico capitolo finale scritto da Dalla in cui in sostanza dice (e non mi risulta che sia mai stato fatto né prima né dopo): questo libro parla di me ma io lo rinnego perché non lo capisco. Era alle porte lo scarto violento di “Com’è profondo il mare” e dei testi scritti da solo, e, lontano lontano, “Caruso” e il successo interstellare.
Quando la puntina (scusate ma questi nascono vinili e tali restano) comincia a solcare “Il giorno aveva cinque teste” (primo round della scazzottata) e incontra “Un’auto targata TO” si capisce però che la bomba è ormai deflagrata. Perché lo scampanio iniziale diventa presto il rintocco macabro di una campana a morto e i “dieci occhi e lo stesso destino” di quei poveri emigrati nostrani (prima gli italiani, eh?), serrati in un’auto vecchia (che importa quale?) che era il gommone di allora, diventano i protagonisti di un viaggio, sì, ma “in un’Italia sventrata dalle ruspe che l’hanno divorata”, da Scilla a Torino, le nuove colonne d’Ercole della disperazione. E quello stesso sventramento diventa la speranza di sopravvivere per quei dieci occhi che viaggiano senza scafisti ma verso padroni che ugualmente li utilizzeranno come merce da sfruttare fino alla deperibilità.
Viaggio puzzolente e amaro di una mamma disfatta, di un bambino che ha solo un pallone, di una ragazza venduta per ore al lavoro nei campi, di un ragazzo “inferriate e catene”, di un padre schedato e spiato.
Quasi palpabile è l’affanno del musicista Dalla, prima abituato a testi morbidi che si adattavano ai voli fino a quel momento inauditi della sua musica e del suo scat, nel rincorrere le immagini del testo: martella, parla, si distende, si inquieta torvo, partecipa, si estrania. Quasi una sofferenza: eh sì, se le sono date di santa ragione Dalla e Roversi, poco da dire.
Ma quando la famiglia arriva a Torino, e ci arrivano scassati e pesti anche la musica e il testo, per un attimo è magia. La musica ha una apertura melodica quasi verdiana e il testo, declamato in modo ieratico, la sposa senza violenza:
Questo luogo del cielo è chiamato Torino
Lunghi e larghi i viali,
splendidi monti di neve
sul cristallo verde del Valentino
illuminate tutte le sponde del Po
perché a un certo punto un poco di speranza ci deve pure essere da qualche parte. Anche se breve, ma proprio breve perché i terroni sono condannati a costruire, per gli altri, appartamenti da 50 milioni (vabbè la conversione in euro fatevela voi, e gli adeguamenti e i calcoli della svalutazione…).
Sono fatti di ieri?
Resta la Torino dei cortili sterrati e senza sole e quell’unico spunto melodico (ma tanto tanto dalliano) che serpeggia in tutta la canzone e che diventa una nenia enigmatica che dice tutto.
E niente.
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